lunedì 28 maggio 2012

INFORMAZIONE AMBIENTALE E DIRITTO DI ACCESSO


Non sono rari i casi di proteste popolari riguardanti decisioni pubbliche in materia ambientale:  decisione di localizzare una discarica o un centro di raccolta in una determinato luogo, oppure decisioni inerenti l'affidamento di un servizio pubblico. Il più delle volte sono decisioni unilaterali dell'Autorità pubblica che non tengono conto del diritto di partecipazione ed informazione dei cittadini. Ancor più segrete vengono tenute le informazioni sullo stato dell'inquinamento del suolo e delle acque. Il tutto in violazione del diritto all'informazione e di accesso agli atti ormai consolidatosi (almeno teoricamente) nel diritto ambientale. 
Si vuole tracciare seppur brevemente la disciplina di tale istituto nell'ottica di una tutela dell'informazione premendo sul fatto che per affrontare in maniera efficace ai problemi ambientali e perseguire uno sviluppo economico e sociale sostenibile, in grado di preservare l’ambiente in cui viviamo e garantirlo alle generazioni future, i governi e le amministrazioni devono informare e coinvolgere la collettività nelle decisioni che investono il territorio e la qualità della vita. 
Tra le esigenze di tutela ambientale e il diritto all’informazione vi è una stretta interdipendenza: per nessun altro bene come per l’ambiente, la diffusione e la circolazione adeguata delle informazioni e delle conoscenze, anche di carattere tecnico, è indispensabile per una corretta definizione degli oggetti e delle modalità di tutela. Ciò dipende dalle peculiari caratteristiche delle questioni ambientali, contraddistinte da interdisciplinarietà, coinvolgimento di una pluralità di attori portatori di interessi diversi, asimmetria distributiva dei costi e dei benefici, distribuzione non uniforme dell’informazione e sviluppo nel tempo delle conoscenze disponibili. In tale contesto, un'adeguata informazione ed una democrazia partecipata rappresentano strumenti essenziale essenziali per la tutela dell'ambiente e della salute umana. Da un lato, infatti, la corretta raccolta, gestione, integrazione delle informazioni relative all’ambiente, costituisce uno strumento indispensabile a supporto delle politiche ambientali, sia nella fase di pianificazione degli interventi sia in quella di verifica della loro efficacia; dall’altro, la pubblicità e la diffusione delle informazioni ambientali consentono di modificare il ruolo che i cittadini svolgono nel perseguimento degli obiettivi di tutela dell’ambiente, trasformandoli in soggetti attivi, in grado di fare scelte consapevoli e di esercitare un controllo sull’operato dei soggetti pubblici.


Il diritto all’informazione ed il diritto di partecipazione ai processi decisionali in materia ambientale, è stato oggetto di molte convenzioni internazionali ambientali. 

Nel rapporto Brundtland, anche denominato “Our common future” (il nostro avvenire per tutti), pubblicato nel 1987, la Commissione Mondiale indipendente per l’Ambiente e lo Sviluppo (CMAS) delle Nazioni Unite dichiarò la necessità di un sistema politico in grado di assicurare l’effettiva partecipazione dei cittadini e delle ONG ai processi ed alle politiche concernenti l’ambiente per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile.
Durante la “Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo”(UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro (luglio 1992) è stato più volte affrontato l’argomento della partecipazione del pubblico al processo legislativo in materia ambientale quale elemento essenziale dello sviluppo sostenibile. 
Ciò che è emerso è un'idea di educazione ambientale, intesa come strumento per la promozione di sistemi di vita e di produzione sostenibili, al fine di garantire un uso delle risorse distribuito equamente tra i popoli e le generazioni presenti e future. L’idea di fondo è che il riconoscimento agli individui di alcuni diritti ambientali “procedurali” o “funzionali”, quali il diritto di ottenere informazioni sullo stato dell’ambiente, di partecipare ai processi decisionali e di avere accesso a idonei mezzi di tutela, consente a ciascuno di collaborare alla creazione di un ambiente migliore, esercitare un controllo sull’attività degli Stati in campo ambientale e tutelare, in ultima analisi, il proprio diritto a vivere in un ambiente sano. In tale prospettiva, un’importanza fondamentale è riconosciuta all’accesso all’informazione ambientale, logica e necessaria premessa per l’esercizio degli altri diritti, e al compito spettante agli Stati di rendere le informazioni ampiamente disponibili al fine di accrescere la consapevolezza e la partecipazione pubblica.  

La Convenzione di Aarhus (Convenzione UN/ECE sull'accesso alle informazioni, la partecipazione pubblica ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale) è la prima convenzione internazionale in materia ambientale che, similmente agli accordi per la tutela dei diritti umani, impone agli Stati degli obblighi nei confronti degli individui. La Convenzione, riconosciuto il fondamentale diritto umano a un ambiente salubre, individua quali mezzi per farlo valere: l’accesso all’informazione, la partecipazione ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia, tre “pilastri” su cui costruire un nuovo modello di democrazia ambientale.
L’informazione ambientale, è definita in maniera estremamente ampia; la nozione comprende non solo le informazioni riguardanti lo stato degli elementi dell’ambiente (aria, acqua, suolo, paesaggio, biodiversità..) ma anche le informazioni attinenti agli elementi che possono influenzare lo stato dell’ambiente, vale a dire, «i fattori», come sostanze, energia, rumore e radiazioni, ma anche «le attività» e «le misure» (provvedimenti amministrativi, politiche, normative, piani e programmi, incluse le analisi economiche utilizzate nei processi decisionali) suscettibili di influire sull’ambiente. La definizione comprende, inoltre, le informazioni riguardanti lo stato di salute e la sicurezza umana e lo stato dei siti culturali nella misura in cui sono influenzati dallo stato dell’ambiente. Legittimato a esercitare il diritto di accesso alle informazioni ambientali in possesso delle autorità pubbliche è il pubblico, definito in maniera estremamente ampia e generica, in modo da evitare qualsiasi discriminazione sulla base della cittadinanza, nazionalità o domicilio. L’accesso, inoltre, deve essere consentito senza necessità di dimostrare un interesse, entro termini prestabiliti, a un costo ragionevole. Infine, sono individuate nel dettaglio le cause che possono legittimare un rifiuto da parte dell’autorità pubblica, al fine di ridurre i margini di discrezionalità degli Stati nell’individuazione delle informazioni accessibili. Le autorità pubbliche devono possedere e aggiornare l'informazione ambientale utile per l'esercizio delle proprie funzioni; istituire meccanismi obbligatori che garantiscano un adeguato flusso di informazioni su attività suscettibili di produrre un significativo impatto sull'ambiente; in caso di minaccia imminente alla salute o all'ambiente, diffondere immediatamente tutta l'informazione utile a prevenire o mitigare i danni. Tra le informazioni che le autorità pubbliche sono tenute a diffondere rientrano le normative, i piani, le politiche in materia ambientale (inclusi i rapporti sulla loro implementazione e i fatti e le analisi rilevanti per la loro elaborazione) e le informazioni sul modo in cui l’amministrazione, a tutti i livelli, esercita le funzioni pubbliche o fornisce i servizi pubblici relativi all’ambiente.
Nell'ordinamento nazionale la disciplina sull'informazione ambientale si rinviene già a partire dalla legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (L.349/1986) che pone in apertura, come compito generale e programmatico del Ministero, quello dell'Informazione. L'art. 14 c.3 della L. 349/1986 è la prima disposizione nazionale a stabilire che: "qualsiasi cittadino ha diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell'ambiente disponibili...presso gli uffici della PA". La norma come è evidente si riferisce a tutti i cittadini indipendentemente dall'interesse sotteso alla richiesta. Questa norma ha assunto una valenza maggiore quando è stata affiancata dalla disciplina che regola il diritto di accesso ai documenti amministrativi contenuta nella L. 241/90 e s.m.i. L'art. 22 della legge sul procedimento amministrativo definisce il diritto di accesso come il diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi (vale adire ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie, contenente atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale). La disciplina speciale in materia si è arricchita dapprima con il D. lgs 39/97 di recepimento della Direttiva 90/313/CEE e successivamente con il D.Lgs 19 agosto 1995 n. 195 che ha abrogato il precedente provvedimento. Tale ultimo decreto, attuativo della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, ha inteso garantire il diritto di accesso stabilendone i termini, le condizioni e le modalità di esercizio, assicurando altresì, al fine della più ampia trasparenza, che l'informazione stessa, che deve essere aggiornata, precisa e confrontabile, sia messa a disposizione del pubblico e diffusa anche attraverso l'uso di canali tecnologici. Lo scopo del decreto è quello di assicurare la libertà di accesso alle informazioni in possesso della PA, in forma scritta, visiva o sonora riguardanto lo stato delle acque, del suolo, della fauna del territorio ecc.
L'art. 3 non presuppone un interesse alla richiesta di accesso poichè prevede che l'autorità pubblica è tenuta a rendere disponibile l'informazione detenuta a chiunque ne faccia richiesta senza che questi dichiari il proprio interesse.
Il decreto elenca dettagliatamente le ipotesi in cui l'accesso può essere negato (art. 5).
Allo scopo di fornire al pubblico tutte le notizie utili al reperimento dell'informazione ambientale, la PA istituisce e aggiorna almeno annualmente appositi cataloghi pubblici dell'informazione ambientale (art. 4).
Il tema dell'accesso e della diffusione dell'informazione ambientale è contemplato anche nel D.lgs 152/06 che nella prima parte contempla il diritto di accesso alle informazioni ambientali tra i principi generali in tema di tutela dell'ambiente (art. 3 sexies: "Chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale").
L'attività conoscitiva è richiamata inoltre dalle singole parti del decreto che disciplinano i diversi settori. 
Vi è inoltre l'art. 55 rubricato attività conoscitiva, che stabilisce che l'ANCI contribuisce allo svolgimento di tale attività in particolare per realizzare le finalità di risanamento del suolo e del sottosuolo, di risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto e la messa in sicureza di situazioni di rischio, nonchè ai fini della diffusione dell'informazione ambientale di cui agli artt. 8 e 9 del D.lgs 195/2005 e altresì con riguardo all'inquinamento dell'aria, delle acque, acustico, elettromagnetico e luminoso, alle fonti energetiche rinnovabili, allo sviluppo sostenibile, ai partchi e alle aree protette ecc. 

Il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell'associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza. Pertanto, sussiste il diritto di accesso del Codacons agli atti del comune concernenti l'approvazione del progetto esecutivo e la realizzazione di un impianto di smaltimento dei rifiuti atteso che, riguardo a tali atti, l'istanza del Codacons risulta pertinente ai fini statutari dell'associazione in quanto rivolta alla tutela dell'interesse degli utenti del relativo servizio. Peraltro il concetto di legittimazione riguardo all'accesso all'informazione ambientale assume, per espressa previsione normativa e per costante applicazione giurisprudenziale, una valenza decisamente più lata rispetto alla legittimazione prevista per il diritto di accesso tout court. (T.a.r. Lazio, Roma, Sezione 2 ter, sentenza 14 marzo 2011, n. 2260) 

Si sottolinea però che le norme sopra citate fanno riferimento all'accesso agli atti della pubblica amministrazione; capita però che alcune attività di gestione ambientale siano svolte da privati in tal caso non può chiedersi l'eccesso. Lo ha affermato recentemente il Tribunale Amministrativo del Lazio - con sentenza 30 gennaio 2012, n. 966 - che dichiara "l'inammissibilità del ricorso ad exhibendum (art. 116 c.p.a.)" contro il silenzio del gestore di una discarica non qualificabile né come ente pubblico, né come concessionario di pubblico servizio.
Maria Giovanna Laurenzana





Punta Perotti, storia di un ecomostro


 Articolo tratto da Rinnovabili.it

L’Italia dovrà versare oltre 49 milioni di euro in totale alle tre società che hanno fatto ricorso contro la confisca di Punta Perotti. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo aggiungendo che “lo Stato italiano si deve astenere dal domandare ai ricorrenti di rimborsare i costi della demolizione degli immobili e i costi per la riqualificazione dei terreni”. Si tratta dell’ennesimo episodio della lunga vicenda dell’ecomostro di Bari. Vicenda iniziata quando nel 1992 le tre società ricorrenti, proprietarie di terreni sulla costa di Bari in località Punta Perotti, ottennero dal Consiglio comunale di Bari l’approvazione di due piani di lottizzazione dalle stesse presentati, alla quale seguì la conclusione di convenzioni di lottizzazione con il Comune di Bari, il rilascio dei permessi di costruire e l’avvio dei lavori di costruzione. Nel 1996 fu aperto un procedimento penale per lottizzazione abusiva che si concluse con il rinvio a giudizio dei legali rappresentati delle società coinvolte e con la successiva assoluzione degli stessi nei diversi gradi di giudizio. In primo grado si sostenne l’illiceità della costruzione degli immobili in quanto non conformi alla c.d. Legge Galasso (l. n. 431 del 1985), che vietava di rilasciare permessi di costruire riguardanti i siti di interesse naturale, tra i quali rientravano le zone costiere. Tuttavia gli imputati furono assolti sia perché l’amministrazione locale aveva rilasciato i permessi di costruire, sia, soprattutto, perché la normativa regionale, sotto il profilo del coordinamento con la c.d. legge Galasso, risultava lacunosa, individuando così uno di quei pochi casi di “ignoranza scusabile”. Il giudice dell’appello ha poi riconosciuto la legalità del rilascio dei permessi di costruire e della procedura di adozione ed approvazione delle convenzioni di lottizzazione. Sulla vicenda si pronunciò infine la Corte di Cassazione la quale cassò senza rinvio la decisione della Corte d’Appello riconoscendo l’illegalità dei piani di lottizzazione e dei permessi di costruire sul rilievo che i terreni interessati erano soggetti ad un divieto assoluto di costruire oltre che ad un vincolo paesaggistico imposto dalla legge.
Successivamente i proprietari si sono rivolti alla Corte europea ed hanno sostenuto, in particolare, che la confisca subita è incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione il cui primo comma, esaminando il profilo dell’efficacia nel tempo della legge penale, sancisce che i cittadini dei Paesi membri della Convenzione non possono essere condannati per un fatto non previamente previsto come reato dal diritto vigente, ovvero non possano essere assoggettati a pene più gravi di quelle applicabili al momento della commissione del fatto.
La Corte europea ha accolto la doglianza sulla base delle seguenti motivazioni.
In base all’art. 7 della Convenzione, la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Nel caso di Punta Perotti, la Corte di Strasburgo, sottolineando il fatto che, secondo la Corte di Cassazione, gli imputati hanno commesso un errore inevitabile e scusabile nell’interpretazione delle norme violate, ha riconosciuto che le condizioni di accessibilità e prevedibilità della legge, non sono state soddisfatte.
Parallelamente, la Corte si è occupata della natura giuridica della confisca che per un consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale costituisce sanzione amministrativa che il giudice penale deve disporre allorché accerti la sussistenza di una lottizzazione abusiva, in funzione di supplenza rispetto alla pubblica amministrazione. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che la confisca sia una pena, sicché la giurisdizione italiana prevedendone l’applicazione al di fuori di ipotesi di responsabilità penale incorre nell’infrazione dell’art. 7 della Convenzione. Gli elementi a sostegno di questa tesi sono stati il suo collegamento con un reato accertato dal giudice penale, la finalità repressiva e non riparatoria della misura controversa e la sua gravità. La Corte, constatato che il reato, rispetto al quale la confisca è stata inflitta ai ricorrenti, non aveva alcuna base legale ai sensi della Convenzione e che la sanzione era arbitraria, ha affermato inoltre che vi è stata un’ingerenza arbitrario nel diritto al rispetto dei beni dei soggetti ricorrenti con conseguente violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1
Con la sentenza di ieri, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, sulla base dell’art. 41 della Convenzione (“se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”) ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei ricorrenti, i quali nonostante la revoca della confisca non hanno goduto degli immobili costruiti perché demoliti e dei terreni ove è sorta o sta sorgendo un’area verde. È una sentenza che senza smentire il clamore scaturito dai precedenti eventi, fa discutere. La demolizione delle costruzioni è stata il simbolo della lotta agli abusi edilizi e agli ecomostri, ma le conseguenze che ne sono derivate non sono di poco conto. La causa di tutto è una normativa non chiara che la Corte di Strasburgo non ha potuto non riconoscere.
Maria Giovanna Laurenzana


lunedì 21 maggio 2012

Il progetto Enel di conversione a carbone della centrale termoelettrica a olio combustibile di Porto Tolle.



Venerdì 20 aprile è stata emessa la sentenza della sesta sezione del Consiglio di Stato che respinge per inammissibilità il ricorso con cui la Regione Veneto ha chiesto di revocare la sentenza dello stesso Consiglio di Stato del 17 maggio 2011. In quella pronuncia è stato dichiarato illegittimo il decreto del Mistero dell’Ambiente che stabiliva la compatibilità ambientale del progetto Enel di conversione a carbone della centrale termoelettrica a olio combustibile di Porto Tolle, in provincia di Rovigo.

Il passaggio decisivo si avrà il 22 maggio, quando il Consiglio di Stato sarà chiamato a decidere sulla compatibilità della sentenza del maggio 2011 con le norme approvate dalla regione Veneto.

In quella data i giudici si esprimeranno sulla richiesta che l’avvocatura dello stato per conto dei Ministeri dell’Ambiente, Sviluppo e Beni Culturali, ha avanzato per avere delucidazioni sull’applicazione della stessa sentenza di inammissibilità della VIA (valutazione di impatto ambientale) nazionale, al fine di riattivare la procedura. Il pronunciamento è slittato al 22 maggio per superare un vizio di notifica  nei confronti dell’Enel.

La richiesta di delucidazione (giudizio di ottemperanza) da parte dei ministeri è dettata dalla modifica fatta dalla Regione Veneto della legge istitutiva del Parco Delta del Po; in base alla norma isititutiva del parco del 1997 i giudici avevano bocciato la VIA alla riconversione a carbone. Ma con la modifica della legge del 1997, il Veneto aveva inserito la possibilità di riconvertire a carbone la centrale, in presenza di un abbattimento delle emissioni inquinanti del 50%.

 Venerdì 18 maggio prendendo spunto dal caso di Porto Tolle a Roma presso la sede della Provincia si è tenuto il convegno organizzato da Greenpeace Italia “La produzione elettrica da carbone: impatti, esternalità, danni sanitari. Il caso Enel. Sono intervenuti: il prof. Massimo Scalia (fisica ambientale presso l’Università La Sapienza di Roma), Fleur Schele (SOMO centre for research on Multinational Corporations) Laury Myllyvirta (Greenpeace International) Andrea Boraschi (campagna clima ed energia Greenpeace Italia) Giuseppe Onufrio (direttore esecutivo di Greenpeace Italia).


Nel novembre 2011 l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha pubblicato uno studio sugli impatti sanitari, ambientali ed economici dell’inquinamento atmosferico dei principali impianti industriali europei. In quella ricerca “Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe”1 – l’EEA presenta una classifica dei 20 impianti industriali più inquinanti, per emissioni atmosferiche, nel nostro continente: al 18esimo posto viene classificata la centrale termoelettrica a carbone Enel Federico II, a Brindisi.

Lo studio EEA fornisce una stima del costo aggregato dei danni sanitari, economici e ambientali di quell’impianto: un importo economico tra i 536 e i 707 milioni di euro, in riferimento ai dati di emissioni del 2009 (fonte registro E-PRTR). Greenpeace Italia ha deciso di utilizzare lo stesso metodo applicato dall’EEA, estendendolo a tutte le centrali termoelettriche a carbone di Enel in Italia e in Europa e a tutte le centrali alimentate con fonti fossili di Enel in Italia.

Lo scopo della ricerca di Greenpeace è di mettere in luce gli impatti e le esternalità che derivano dall’impiego del carbone nella produzione termoelettrica, così come calcolati attraverso la metodologia EEA, facendo riferimento a dati di emissione di fonte istituzionale.

Durante il convegno di venerdì 18 maggio è stato presentato lo studio che Greenpeace Italia ha commissionato all’istituto di ricerca indipendente e non profit SOMO che si può visionare on line sul sito di Greenpeace Italia.
Rosanna Carbotti

mercoledì 9 maggio 2012

IL TRASPORTO DEI RIFIUTI AGRICOLI. LE MODIFICHE DEL DECRETO LIBERALIZZAZIONI


Visti gli ultimi aggiornamenti normativi (D.Lgs. 3 dicembre 2010, n.205, DM 11 novembre 2011, n.219 e D.Lgs. 9 febbraio 2012, n.5) pare opportuno un approfondimento nel campo dei rifiuti agricoli.
Secondo il D.Lgs. 152/06 e smi i rifiuti sono classificati secondo l’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali, e secondo le caratteristiche di pericolosità, in pericolosi e non pericolosi.
In particolare i rifiuti provenienti da abitazioni rurali sono normalmente classificati come urbani e quindi gestiti a tutti gli effetti come tali; mentre i rifiuti provenienti dall’esercizio delle attività agricole sono definiti rifiuti speciali.

Ai sensi dell,art. 185 comma 1 lett. c) non sono soggetti alla disciplina dei rifiuti contenuta nella parte IV del D.Lgs. 152/06 e smi i seguenti rifiuti agricoli:
- le materie fecali, se non contemplate dal Regolamento (Ce) n.1774/2002, paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana (art. 185, comma 1, lett. f);
-le terre da coltivazione, anche sotto forma di fanghi, provenienti dalla pulizia e dal lavaggio dei prodotti vegetali, riutilizzati nelle normali pratiche agricole e di conduzione dei fondi rustici anche dopo il trattamento in impianti aziendali che riducano i carichi inquinanti e potenzialmente patogeni, dei materiali di partenza.

Sono esclusi dall’ambito di applicazione dei rifiuti (parte IV del D.Lgs. 152/06 e smi), in quanto regolati da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento:
- i sottoprodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, contemplati dal regolamento (Ce) n. 1774/2002, eccetto quelli destinati all'incenerimento, allo smaltimento in discarica o all'utilizzo in un impianto di produzione di biogas o di compostaggio (art. 185, comma 2, lett. b);
- le carcasse di animali morti per cause diverse dalla macellazione, compresi gli animali abbattuti per eradicare epizoozie, e smaltite in conformità del regolamento (Ce) n. 1774/2002 (art. 185, comma 2, lett. c).
Secondo il D.Lgs. 152/06 e smi (art. 183, comma 1), lettera bb)) per deposito temporaneo si deve intendere il raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti o, per gli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 del Codice civile, presso il sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola di cui gli stessi sono soci.
Perché si profili come DEPOSITO TEMPORANEO devono essere rispettate le seguenti condizioni:
- i rifiuti devono essere raccolti ed avviati alle operazioni di recupero o di smaltimento secondo una delle seguenti modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti: con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalle quantità in deposito; quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui al massimo 10 metri cubi di rifiuti pericolosi. In ogni caso, allorché il quantitativo di rifiuti non superi il predetto limite all'anno, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno;
- il 'deposito temporaneo' deve essere effettuato per categorie omogenee di rifiuti e nel rispetto delle relative norme tecniche, nonché, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il deposito delle sostanze pericolose in essi contenute;
- devono essere rispettate le norme che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura delle sostanze pericolose.
Se non è possibile rispettare le condizioni per il deposito temporaneo va richiesta l'autorizzazione allo stoccaggio nelle sue forme di deposito preliminare, se i rifiuti sono destinati allo smaltimento, o messa in riserva se possono essere oggetto di recupero.
nel caso di recupero dei rifiuti è da verificare la possibilità di accedere alle cosiddette procedure semplificate, ovvero di non procedere alla richiesta di autorizzazione ma inviare semplicemente una comunicazione di inizio attività alle sezioni regionali dell'albo gestori rifiuti.
E’ obbligatoria l’iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali per tutte le Imprese che trasportano i propri rifiuti, pericolosi e non. L’iscrizione prevista con regime semplificato (art.212, c.8 del D.Lgs. 152/06) per mezzo di una comunicazione alla sezione regionale o provinciale a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante dell’organizzazione dell’Impresa da cui i rifiuti sono prodotti è riservata a:
- produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti;
- produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto di 30 kg/l al giorno dei propri rifiuti.

Dal 10 febbraio 2012 (D.Lgs. 9 febbraio 2012, n.5) esiste una specifica deroga, dettata dall’articolo 28 che testualmente recita:

“1. All'articolo 193 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, dopo il comma 9 è inserito il seguente: '9-bis. La movimentazione dei rifiuti tra fondi appartenenti alla medesima azienda agricola, ancorché effettuati percorrendo la pubblica via, non è considerata trasporto ai fini del presente decreto qualora risulti comprovato da elementi oggettivi ed univoci che sia finalizzata unicamente al raggiungimento del luogo di messa a dimora dei rifiuti in deposito temporaneo e la distanza fra i fondi non sia superiore a dieci chilometri. Non è altresì considerata trasporto la movimentazione dei rifiuti effettuata dall'imprenditore agricolo di cui all'articolo 2135 del Codice civile dai propri fondi al sito che sia nella disponibilità giuridica della cooperativa agricola di cui è socio, qualora sia finalizzata al raggiungimento del deposito temporaneo.

Tale nuova norma dispone l’inserimento di un nuovo  comma 9-bis nell’art. 183 D.Lgs. n. 152/06 che la suddetta movimentazione non si considera trasporto, a condizione che sia comprovato, da elementi oggettivi ed  univoci,  che  sia  finalizzata  unicamente  al raggiungimento del luogo di messa a dimora dei  rifiuti  in  deposito temporaneo.

In funzione di tale deroga è ammesso il trasporto in assenza della prescritta iscrizione (art.212, c.8).
Per tutti gli altri l’iscrizione all’Albo segue la procedura ordinaria (categoria 1, 4 o 5).
Maria Giovanna Laurenzana

giovedì 3 maggio 2012

Decreti Rinnovabili, una strada in salita

tratto da Rinnovabili.it


In attesa dei pareri della Conferenza Unificata e dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, il c.d. Decreto rinnovabili fa ancora discutere.

Dopo le proteste delle associazioni di categoria, arriva anche il parere negativo della Commissione Ambiente della Camera. Nel parere sul documento di economia e finanza, la Commissione ha posto due condizioni: modificare i recenti schemi dei decreti interministeriali recanti la disciplina degli incentivi per l’installazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili al fine di garantire il conseguimento degli obiettivi di politica ambientale assunti in sede europea e di promuovere il rafforzamento e il consolidamento di una filiera industriale integrata delle rinnovabili.

Come da più parti evidenziato, questo decreto renderebbe impervia la strada per una espansione delle rinnovabili.

Nelle premesse si afferma: “tenendo conto delle esigenze di bilanciamento del mix di fonti, dei tempi e costi di adeguamento della rete, si ritiene che il nuovo target di energia elettrica da fonte rinnovabile al 2020 possa essere pari al 32-35% dei consumi elettrici totali.” Il raggiungimento di questo target comporterà un costo indicativo cumulato di tutte le tipologie di incentivo degli impianti a fonte rinnovabile, con esclusione di quelli fotovoltaici, non superiore a 5,5 miliardi di euro annui (art. 3 c.2).

Questa cifra, che ai non addetti ai lavori può sembrare alta, in realtà non è sufficiente. Infatti, come si legge in una recente relazione al Parlamento, l’AEEG stima per il 2012 un costo cumulato per gli incentivi alle rinnovabili (escluso Conto energia e incluso Cip6 solo quota FER) pari a 3,5 miliardi di euro. In sostanza, il nuovo decreto coprirebbe soltanto i due miliardi di euro di differenza, (il “costo indicativo cumulato” comprende anche i costi di tutti gli impianti già in esercizio).

Inoltre dal prossimo anno si prevedono ulteriori oneri: introduzione di un registro, contingentamento annuo della potenza incentivabile e aste al ribasso per i grandi impianti.

Per gli impianti di potenza superiore a 5 MW (superiore a 20 MW per idroelettrico e geotermoelettrico) sono previste delle procedure pubbliche di asta al ribasso, in forma telematica. Il bando relativo alla prima procedura d’asta, per il contingente di potenza disponibile per l’anno 2013, sarà pubblicato entro il 31 luglio 2012. Il decreto ha fissato per il periodo 2013-2015 i contingenti in MW da mettere ad asta (art. 12 c.4).

Invece, gli impianti di potenza superiore a 50 kW e inferiore alle soglie sopra le quali scatta l’asta, devono richiedere al GSE l’iscrizione ad un registro informatico che prevede volumi massimi predefiniti per ciascun anno e per tecnologia e con selezione in base a criteri di priorità. La prima procedura di iscrizione al registro, per il contingente di potenza disponibile per l’anno 2013, sarà pubblicata entro il 31 luglio 2012. Anche per questi impianti il decreto ha fissato i contingenti disponibili in MW, per il periodo 2013-2015 (art. 9 c. 4).

Infine, gli impianti fino a 50 kW non sono soggetti né alle aste né all’iscrizione al Registro.

Per gli impianti che entrano in esercizio nel 2013, le tariffe di riferimento sono quelle riportate nell’Allegato 1 al decreto. Negli anni successivi, il valore delle tariffe è decurtato del 2% all’anno (art. 7 c. 1).

Il periodo di diritto all’incentivo è predisposto sulla vita media utile degli impianti (all. 1).

Per gli impianti fino a 1 MW “il GSE provvede, ove richiesto, al ritiro dell’energia elettrica netta immessa in rete, erogando una tariffa incentivante onnicomprensiva dell’incentivo e del prezzo zonale orario dell’energia, ferme restando le determinazioni dell’Autorità in materia di dispacciamento” (art. 7 c.4).

Per gli impianti di potenza superiore, “anche soggetti alle aste al ribasso, il GSE eroga, in riferimento alla produzione netta immessa in rete, il pertinente incentivo spettante. L’energia prodotta dai medesimi impianti resta nella disponibilità del produttore” (art. 7 c.5).
Il decreto prevede inoltre, che i nuovi incentivi (analogamente a quanto previsto dal Quinto Conto energia), siano alternativi allo Scambio sul posto e al Ritiro dedicato dell’energia.

Gli impianti alimentati a biomasse, biogas e bioliquidi sostenibili possono beneficiare, in aggiunta all’incentivo sulla produzione elettrica, anche di un “premio cogenerazione ad alto rendimento” (art.8).
Il premio cogenerazione può essere sottoposto ad alcuni possibili incrementi tariffari (ad esempio nel caso di riduzioni di emissioni negli impianti a biogas oppure di utilizzo per teleriscaldamento del calore cogenerato). Il premio non è comunque cumulabile con i nuovi Certificati Bianchi per la cogenerazione.

Il decreto disciplina anche le modalità e la tempistica con cui il GSE emetterà e ritirerà i Certificati Verdi relativi alle produzioni degli anni dal 2012 al 2015 (artt. 19 ss).

Alla richiesta di iscrizione al registro o di partecipazione alle procedure d’asta, deve essere corrisposto al GSE un contributo per le spese di istruttoria pari alla somma di una quota fissa di 150 €, più una quota variabile, dagli 80 ai 2.200 € a seconda della taglia dell’impianto (art. 21).
Inoltre per la copertura degli oneri di gestione, verifica e controllo in capo al GSE,  tutti i soggetti beneficiari degli incentivi (anche quelli già in esercizio), ad eccezione degli impianti CIP 6/92, dal 1° gennaio 2012 corrisponderanno al GSE un contributo di 0,2 centesimi di euro per ogni kWh di energia incentivata. Inoltre è previsto che possano richiedere i nuovi incentivi soltanto “i soggetti titolari del pertinente titolo autorizzativi”.

In attesa di esprimere il suo parere sul decreto, l’AEEG ha sottolineato come il 2020 sia ormai troppo vicino e che gli obiettivi che l’Italia si è data non potranno essere migliorati se non attraverso l’utilizzo di una nuova generazione di impianti da fonti rinnovabili in grado di competere ad armi pari con le fonti tradizionali. Peraltro, rileva l’AEEG, la linea d’azione finora adottata, che coniugherebbe gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di aumento della produzione di energia da FER, con criteri di efficienza e di sostenibilità economica, non ha trovato fino ad oggi piena attuazione né in fase di definizione del PAN né in fase di creazione dei sistemi di incentivazione. Con particolare riferimento all’obiettivo del 17 % per le fonti rinnovabili, l’Autorità ritiene che il suo raggiungimento sia possibile agendo su quattro fonti: aumentare i consumi di energia elettrica da fonti rinnovabili, aumentare i consumi di calore prodotto fa fonti rinnovabili, aumentare l’utilizzo di biocarburanti, ridurre i consumi finali totali di energia primaria. In conclusione, mettendo sullo stesso piano il maggiore utilizzo di energia rinnovabile e l’efficienza energetica, si ridurrebbero i costi per il raggiungimento degli obiettivi. Al contrario, il decreto rinnovabili riduce i semplicemente i costi e basta.

Maria Giovanna Laurenzana

Il Piano nazionale per ridurre le emissioni di gas serra e incentivare l’innovazione tecnologica


Il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini ha presentato al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) il Piano per la riduzione delle emissioni al 2020 per l’Italia, incardinato negli obblighi europei e nella strategia Ue al 2050.

Le proposte rientrano nell' ambito del Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra per il rispetto, da parte dell' Italia, del pacchetto Ue clima energia (20-20-20).

Al fine di porre il Paese su un percorso emissivo idoneo a rispettare gli obiettivi annuali vincolanti di cui alla decisione n. 406/2009/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 e le “tappe” di cui alla Comunicazione della Commissione COM(2011)112 che prevedono riduzioni del 25% al 2020, del 40% al 2030, del 60% al 2040 e dell’80% al 2050 rispetto ai livelli del 1990,  i Ministeri sulla base delle loro competenze in via prioritaria dovranno: a) confermare fino al 2020 le detrazioni di imposta di cui all’articolo 4 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011 n. 214 (Detrazioni per interventi di ristrutturazione, di efficientamento energetico e per spese conseguenti a calamita' naturali); b) emanare - entro giugno 2012 - il decreto sulla riforma dei titoli di efficienza energetica al fine di estendere il sistema al periodo 2013-2020 e ampliare il campo di applicazione al fine di rafforzare l’incentivazione del risparmio energetico  o nei processi produttivi dei settori industriali o nei settori di "confine" come ad esempio i progetti di efficienza energetica nell'ambito dei trasporti ferroviari, aerei e marittimi; o attraverso la diffusione della trigenerazione e della generazione distribuita da fonti rinnovabili associata all’utilizzo di smart grid; c) istituire presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare il Catalogo delle tecnologie, dei sistemi e dei prodotti per la decarbonizzazione dell’economia italiana (le imprese e soggetti privati che acquisteranno le tecnologie, i sistemi e i prodotti contenuti nel Catalogo avranno o accesso agevolato ai benefici previsti dal Fondo rotativo per il finanziamento delle misure finalizzate all’attuazione del Protocollo di Kyoto o diritto ad una riduzione del 55% dell’IVA sull’acquisto delle tecnologie dei sistemi e dei prodotti stessi; d) introduzione della tassa sulle emissioni di carbonio, “carbon tax, con esclusione per i settori industriali già obbligati  all’acquisto dei permessi di emissione di CO2 dalla direttiva europea “Emission Trading”; e)  destinare il 50% delle entrate derivanti dai proventi della vendita all’asta delle quote di CO2 di cui all’articolo 1, comma 11 della direttiva 2009/29/CE con la seguente finalità : o contributo annuale ai programmi di cooperazione con i paesi in via di sviluppo ai fini della riduzione delle emissioni e a supporto delle misure di adattamento ai cambiamenti climatici  ( 10% delle risorse disponibili) o contributo annuale al “Centro Euromediterraneo sui Cambiamenti Climatici” per la continuazione dei programmi nazionali ed europei per l’adattamento ai cambiamenti climatici (3% delle risorse disponibili) o cofinanziamento annuale dei programmi per l’aumento dell’assorbimento di carbonio attraverso attivita’  forestali e agricole ( 10% delle risorse disponibili) o cofinanziamento annuale dei programmi di ricerca e sviluppo in materia di tecnologie a basse emissioni di carbonio nell’industria e nei trasporti ( 25% delle risorse disponibili) o rifinanziamento annuale del “fondo rotativo del protocollo di kyoto” (50% delle risorse disponibili) o copertura delle spese amministrative connesse alla  gestione del sistema comunitario ( 2% delle risorse disponibili annualmente) f) destinare i proventi della carbon tax per sostenere gli investimenti pubblici e privati  nella riduzione dell’intensità di carbonio dell’economia, anche attraverso il potenziamento del “ Fondo Rotativo del Protocollo di Kyoto” ; g) rafforzare il coinvolgimento degli enti locali nel percorso verso la sostenibilità energetica ed ambientale attraverso la prosecuzione della positiva esperienza del “Patto dei Sindaci”.
Maria Giovanna Laurenzana


martedì 1 maggio 2012

Combustibili Solidi Secondari (CSS)



Nel decreto legislativo 22/1997 “decreto Ronchi” il CDR era considerato un rifiuto urbano in virtù del fatto che il rifiuto in uscita da un impianto di smaltimento che trattava rifiuti urbani non potesse essere ritenuto speciale agli effetti dell’art. 7, comma 3, lettera g) del dlgs.n. 22 del 1997.
Con la legge n. 179 del 2002 il CDR è diventato rifiuto speciale a tutti gli effetti, tramite un opportuno inserimento tra le definizioni di cui all’art. 7 comm3 del dlgs. N. 22/1997 (lettera I-bis).
La disciplina in materia di rifiuti contenuta nella parte IV del dlgs n. 152/2006 e ss.mm.ii, prima della modifica apportata dal dlgs. 205/2010 proponeva una duplice definizione del combustibile da rifiuti: art. 183 lettra r combustibile da  rifiuti (di qualità normale) art.183 lettera s: cdr-q di qualità elevata.
Il dlgs 205/2010 “Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19/12/2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive ha apportato sostanziali modifiche alla disciplina sui Combustibili Solidi Secondari. Art. 183, lettera cc):combustibile solido secondario: il combustibile solido prodotto da rifiuti che rispetta le caratteristiche di classificazione  di specializzazione individuate le norme tecniche UNI Cen/Ts 15359 e successive modifiche ed integrazioni, fatta salva l’applicazione dell’art. 184 ter, il combustibile solido secondario, è classificato come rifiuto speciale.
Il dlgs 205/2010 ha abrogato le due precedenti definizioni di CDR e CDR-Q (lettera r) ed s) dell’art. 183) l’art.229 che prevedeva nella produzione di entrambi i tipi di CDR, la possibilità di utilizzare rifiuti speciali non pericolosi per una percentuale massima del 50% in peso.
Da un punto di vista tecnico si osserva che nella definizione data dal nuovo art.183 lettera cc) per la prima volta si fa riferimento alla norma Uni Cen /ts 15359 e non più alle norme Uni 9903-1.
Inoltre, viene riconosciuta la possibilità che il CSS possa essere considerato un prodotto a patto che si verifichino alcune condizioni. Diversamente sarà da considerare un rifiuto speciale.
La norma tecnica UNI EN 15359 e s.m.i. assurge al rango di norma tecnica riconosciuta dal legislatore italiano (come già avviene per la UNI 9903-1) e quindi vari combustibili alternativi (diversi dal CDR) ottenuti da rifiuti non pericolosi possono essere classificati ed impiegati in processi di recupero energetico.
Le norme Uni 9903 stabiliscono la classificazione e le caratteristiche chimico-fisiche dei combustibili solidi ricavati da rifiuti, indicati convenzionalmente come rdf (refuse derived fuels), nonché le prescrizioni generali per il loro stoccaggio, movimentazione e trasporto.
Forniscono le specifiche per la determinazione di alcune proprietà fisiche pezzatura (9903-4) potere calorifico (9903-5) umidità totale (9903-7) contenuto di sostanze (9903-8) contenuto di ceneri (9903-9).
La pubblicazione delle nuove norme 15359 (era prevista per la fine del 2011) richiederà necessariamente un allineamento della Uni 9903-1:2004 a quella europea. Nel percorso di modifica intrapreso dal CTI, la nuova edizione della norma UNI 9903-1 andrà  a definire due o più tipi di CSS (il CDR, il CDR-Q e altri),ciascuno dei quali verrà definito a livello nazionale, da tre parametri (PCI, cloro e mercurio). Il CDR e il CDR-Q saranno quindi due CSS di riferimento per il mercato nazionale, rappresentato da due sottoinsiemi del più generale insieme dei CSS.
Il CDR è una voce particolare di CSS, identificata attraverso un codice CER (191210 Rifiuti combustibili) e be definita nel D.lgs.152/2006 (rifiuti speciali).
Secondo la norma UNI  EN CEN/TS 15359 il CSS è un combustibile solido preparato da rifiuti non pericolosi per essere utilizzato per il recupero energetico in impianti di incenerimento o coincenerimento e conforme ai requisiti indicati nella norma tecnica.
Il sistema di classificazione dei CSS, secondo la norma UNI CEN/TS 15359:2006 è basata su tre parametri:potere calorifico (economico), cloro (tecnico), mercurio (ambientale), soltanto un combustibile proveniente da rifiuti non pericolosi e che soddisfa lo standard europeo dei CSS può essere classificato come CSS.

Obiettivo del progetto HiQ-CSS prodotto o rifiuto?
Secondo l’art. 183, comma 1, lett. Cc) il CSS è un rifiuto speciale, fatta salva l’applicazione dell’art. 184-ter.
Art.184-ter (end of waste-cessazione della qualifica di rifiuto);
1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) essite un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà ad impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

Secondo il comma 2 dell’art. 184-ter i criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero in mancanza di criteri comunitari, caso per caso attraverso uno o più decreti del Ministero dell’ Ambiente.
Quindi il legislatore nazionale può, laddove non vi provvedesse il legislatore comunitario, definire dei propri criteri (attraverso uno o più decreti del Ministero dell’Ambiente) affinché i CSS (conformi alla norma UNI EN 15359) possano essere considerati prodotti e non rifiuti, rispettando certe condizioni.
In questo caso la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto, identificato da un preciso codice CER 191210.  

Rosanna Carbotti
lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”.