martedì 18 settembre 2012

Servizi pubblici: dietro il no della Consulta

tratto da Rinnovabili.it 

Diamo un sguardo più da vicino alla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale, del 20 luglio scorso, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 del “decreto ferragosto”.


Non ha deluso le aspettative di chi ha creduto e crede nelle motivazioni dei requisiti referendari di giugno 2011, la sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012 che non ha reso vana la numerosa affluenza alle urne per l’abrogazione della normativa in materia di servizi pubblici locali. La Consulta, partendo dal presupposto opportunamente eccepito dalle Regioni ricorrenti, che uno dei quattro quesiti referendari veniva impropriamente circoscritto alla sola questione della privatizzazione del servizio idrico, ha annullato le disposizioni contenute nell’art. 4 del D.L. 138/2011. La disciplina contenuta nell’art. 4 suddetto non solo riproduceva sia nei principi che testualmente, sia talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23 bis del D.L. sia la maggior parte delle disposizioni recate dal regolamento di attuazione. Nonostante l’esclusione dall’ambito di applicazione della  nuova disciplina del servizio idrico integrato “risulta evidente l’analogia, talora la coincidenza, della disciplina contenuta nell’art. 4 rispetto a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’identità della ratio ispiratrice”.  Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuavano,  afferma ancora la Corte Costituzionale, la drastica riduzione delle ipotesi di  affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso  escludere. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum  riguardava “pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica” (sentenza n. 24 del  2011) ai quali era rivolto l’art. 23-bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato  dal novero dei servizi pubblici locali sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma di cui all’art. 4 del D.L. 138/2011 costituiva, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum  del 12 e 13 giugno 2011.  Il Giudice delle leggi ha quindi ritenuto che la norma in esame violasse il divieto di ripristino della normativa abrogata  dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale. Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli  strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.

Ad oggi, dunque, il settore dei servizi pubblici, analogamente a come era avvenuto all’esito del referendum abrogativo del giugno 2011, si trova ad essere regolato esclusivamente dai principi di diritto comunitario, (assolutamente meno restrittivi rispetto alla disciplina abrogata) sulle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.  Tali principi non impongono la privatizzazione dei servizi pubblici locali, fermo restando che ogni ente è libero di scegliere anche questa strada attuando le conseguenti procedure ad evidenza pubblica del caso, ma consente agli Stati membri di mantenere la gestione pubblica e non prevede una soglia minima di partecipazione dei privati nelle società miste.

Allo stato dunque gli affidamenti legittimi a società in house o miste, con socio operativo selezionato mediante gara a c.d. doppio oggetto con almeno il 40% di capitale, possono proseguire fino alla scadenza senza necessità di alcun adempimento da parte dei Comuni. Non sarà quindi necessaria la prevista procedura sull’analisi della gestione concorrenziale (delibera quadro ed eventuale parere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Viene meno anche l’obbligo per i Comuni di ridurre le proprie partecipazioni secondo tempi e modalità prestabilite, per poter portare a scadenza i contratti in essere (scongiurando possibili infiltrazioni da parte di società di derivazione mafiosa).

Restano invece valide ed in vigore le disposizioni  di cui all’articolo 3 bis inerente Ambiti  territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali nonché le norme in materia di vincoli e limiti per le società in house su personale, acquisti di beni e servizi e possibile estensione del Patto di Stabilità, previsti dalle vigenti normative.


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