lunedì 17 dicembre 2012

Green economy e crisi


E' l'argomento in voga nei salotti ambientalisti nonchè nelle campagne elettorali di tutto il mondo. La crisi ambientale ha portato alla crisi economica. L'uso smisurato delle risorse ha impoverito tutti; la soluzione per molti è l'economia verde.
La green economy è un modello teorico di sviluppo economico basato sulle problematiche di degrado ambientale legato allo sfruttamento delle materie prime. La green economy, quindi, prende in considerazione sia il prodotto interno lordo di un Paese sia l’impatto ambientale provocato dall’intero ciclo di trasformazione delle materie prime in energia e prodotti finiti fino ai possibili danni ambientali prodotti dalla loro eliminazione o smaltimento. Questi danni si ripercuotono a loro volta sul PIL stesso diminuendolo, provocando una diminuzione della resa produttiva economica di quelle attività che traggono vantaggio da una buona, se non ottima, qualità ambientale, quali: l’agricoltura, la pesca, il turismo e la salute pubblica.
Il concetto di  green economy inizia a svilupparsi nel 2006 con la stesura del "rapporto Stern", un documento che riporta un analisi sull’economia mondiale minacciata dai cambiamenti climatici denunciandone gli effetti negativi sul PIL mondiale e dalle crescenti preoccupazioni dettate dall’esaurimento progressivo dei combustibili fossili e dal continuo e incessante processo di sfruttamento delle risorse rinnovabili del pianeta senza dare ad essi il tempo necessario per potersi rinnovare intaccando in questo modo le scorte disponibili.

La green economy, pertanto, si propone di ridurre i consumi energetici e delle risorse naturali quali acqua, cibo, combustibili attraverso misure economiche legislative e di educazione pubblica puntando allo sviluppo sostenibile migliorando l’efficienza energetica e produttiva impegnandosi a ridurre le emissioni dei gas serra cercando di diminuire l’inquinamento sia locale che globale utilizzando le risorse rinnovabili.
In quest’ottica di sviluppo economico vi è la reale possibilità di creare lavori “verdi” che assicurino una reale crescita economica sostenibile prevenendo le problematiche ambientali: inquinamento ambientale, riscaldamento globale, esaurimento delle risorse minerarie e idriche, degrado ambientale.

In Italia si sono tenuti gli Stati Generali che hanno raccolto le opinioni degli stakeholders e delle istituzioni.
Gli Stati Generali della Green Economy sono nati da un’idea del Ministro dell’Ambiente e sono stati organizzati e convocati per contribuire alla elaborazione della strategia nazionale ed europea a seguito degli impegni presi dall’Italia durante la Conferenza delle Nazioni Unite di Rio+20.
Maria Giovanna Laurenzana

lunedì 19 novembre 2012

Nuova disciplina terre e rocce da scavo DM. n. 161/2012.


La gestione delle terre e rocce da scavo e dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione è sicuramente uno dei temi più delicati e complessi presenti nello scenario normativo nazionale.

La disciplina di tutela ambientale per la gestione delle terre e rocce da scavo e'contenuta nella parte quarta del dlgs. 152/2006 modificata dallo scorso 6 ottobre dal regolamento approvato con D.M. ATTM n. 161 del 10 agosto 2012.

Come evidenziato soprattutto dagli addetti ai lavori durante i numerosi convegni tenuti sul tema alla Fiera Ecomondo di Rimini nei giorni scorsi, (es. il confronto tra Assimpredil ANCE, Arpa Lombardia, Legambiente Lombardia e operatori de settore), il regolamento si rivela tagliato per la gestione delle terre e rocce derivanti dalle grandi opere, mentre per le realtà imprenditoriali medio piccole che realizzano cantieri di opere civili minori, rappresentanti un’aliquota importante dei produttori di TRS, il procedimento indicato dalla nuova normativa risulta essere una corsa ad ostacoli (soprattutto la parte relativa al piano di utilizzo), depotenziando notevolmente la possibilità di apportare impatti positivi sull’uso delle risorse naturali e sul ripristino del territorio.

Il provvedimento ministeriale, che si compone di 15 articoli e 9 allegati, sostituisce la previgente procedura prevista dall'art. 186 del d.lgs. 152/2006 per il riutilizzo dei materiali di scavo.

L'art. 1 del regolamento è destinato alle definizioni, che comprendono, oltre al concetto di "materiali da scavo", anche quello di "riporto", meglio inquadrato negli allegati. L'aver fornito una definizione specifica di riporti e aver regolamentato anche il loro riutilizzo (a certe condizioni possono essere equiparati ai sottoprodotti), dovrebbe permettere di superare - si auspica definitivamente - ogni residuo dubbio interpretativo rispetto alla gestione di tali materiali, ma soprattutto dovrebbe consentire di superare il problema della eccessiva onerosità degli scavi edilizi che stava ormai determinando l'arresto o il rallentamento di importanti progetti, in quanto gran parte del materiale scavato misto a residui antropici veniva qualificato come rifiuto e quindi avviato a smaltimento.

Gli articoli 2 e 3, invece, illustrano le finalità del decreto ministeriale e l'ambito di applicazione dello stesso, mentre l'art. 4 (Diposizioni generali) introduce l'equiparazione del materiale da scavo ai sottoprodotti, ricorrendo alcune condizioni similari a quelle stabilite dall'art. 184 bis del d.lgs. 152/2006.

Il successivo articolo 5, dunque, disciplina le modalità di presentazione e approvazioni del Piano di Utilizzo (prima comunemente denominato piano scavi), prevedendo nuovamente il coinvolgimento di ARPA quale ente tecnico e introducendo un meccanismo di silenzio assenso (90 giorni) per velocizzare l'iter di approvazione. Il regolamento, poi, considera anche la gestione delle possibili situazioni di emergenza (art. 6), gli obblighi di tenuta dei documenti specifici relativi agli   scavi (art. 7), la procedura di modifica del Piano di Utilizzo (art. 8), nonché le modalità di esecuzione del piano (art. 9) e i termini e tempi per il deposito del materiale scavo in attesa del riutilizzo (art. 10). Le ultime disposizioni attengono dunque alla fase di trasporto dei materiali scavati e agli adempimenti conclusivi del processo di riutilizzo, inclusa la gestione dei relativi dati e le modalità di verifica e controllo.

Per quanto concerne, invece, gli allegati, alcuni di questi hanno funzione di modello da seguire per la comunicazione di informazioni (es. documento di trasporto, dichiarazione di riutilizzo), mentre altri (es. allegato 1, 2 e 3) forniscono ulteriori indicazioni procedurali, quali la caratterizzazione del materiale o le procedure di campionamento, ovvero indicazioni maggiormente di merito, quali la spiegazione della c.d. "normale pratica industriale" che rileva per la qualifica dei materiali residui come sottoprodotti.

Importante è la disciplina che regola il periodo transitorio. Infatti, il regolamento specifica che, non solo i progetti di riutilizzo dei materiali di scavo già approvati, ma anche le procedure di valutazione in corso devono concludersi ai sensi della normativa previgente. E' comunque riconosciuta agli operatori la possibilità di chiedere la rimodulazione della procedura secondo quanto previsto dal D.M. 161/2012 entro 180 giorni dall'entrata in vigore di quest'ultimo. Per quanto riguarda, invece, gli interventi di scavo che vengono programmati successivamente all'entrata in vigore del regolamento, gli stessi saranno immediatamente assoggettati alla nuova disciplina. Da un lato, il regolamento apre la strada all'effettivo riutilizzo dei materiali da scavo con conseguente risparmio di costi, dall'altro, la procedura introdotto è piuttosto complessa e articolata. È, quindi, doveroso concludere evidenziando che la violazione degli obblighi sanciti dal regolamento può determinare automaticamente la cessazione della qualifica di sottoprodotto del materiale da scavo, che dovrà essere, quindi, gestito come rifiuto.

Considerato inoltre che spesso nei cantieri ci si avvale di ditte per l'esecuzione di opere specialistiche (cioè ditte subappaltatrici) quest'ultime sono considerate a tutti gli effetti produttori di rifiuti anche se operano nei cantieri dei terzi. Pertanto e'opportuno inserire nei contratti stipulati tra imprese committenti e ditte subappaltatrici una clausola che stabilisca che "la raccolta, il trasporto, lo smaltimento/recupero dei rifiuti prodotti da dette ditte nei cantieri dei committenti devono essere eseguiti a loro cura e spese ai sensi dell'art. 188 coma 2 Dlgs 152 2006. Secondo il combinato disposto degli art. 188 ter coma 2 lettera a art. 184 comma 3 lett. C e d e g nonché art. 190 comma 1 Dlgs 152/2006 sia la produzione sia il trasporto in conto proprio di rifiuti non pericolosi provenienti da attività di demolizione, costruzione e scavo sono esclusi dal l'obbligo di tenuta di registro carico e scarico rifiuti e mud in futuro comunicazione Sistri a prescindere dal numero dei dipendenti dell'impresa.

domenica 18 novembre 2012

Servizi pubblici locali:evoluzione della disciplina

Prima dell'entrata in vigore del regolamento previsto dall'art. 23 bis d.l. 112/2008, i servizi pubblici locali di rilevanza economica potevano essere erogati (d.lgs 267/2000) o da parte di società di capitali individuate attraverso procedure ad evidenza pubblica, o da parte di società a capitale misto pubblico e privato, nelle quali però il socio privato fosse scelto attraverso gare a evidenza pubblica (predeterminando necessariamente i futuri compiti operativi dello stesso), oppure da parte di società in house. In quest'ultimo caso, l'Amministrazione eroga il servizio in modo diretto seppure con l'intermediazione di un'entità societaria la quale, soddisfatti determinati requisiti, è considerabile una longa manus dell'amministrazione.
Le società in house sono state oggetto di numerose sentenze della Corte di Giustizia poichè ogni volta che un soggetto pubblico conclude un contratto che sia di concessione o di appalto con un soggetto terzo, è interesse del diritto comunitario che siano rispettati determinati principi posti a tutela della concorrenza tra tutte le imprese dell'UE. 
La Corte di Giustizia con la famosa sentenza Teckal del 18 novembre 1999 ha fatto chiarezza sulle condizioni necessarie affinchè il contratto di concessione con cui viene affidata la gestione di un servizio pubblico non debba essere necessariamente preceduto da una procedura concorrenziale. tali condizioni sarebbero: il  c.d. controllo analogo (che si ha quando l'amministrazione effettua un controllo sulla società analogo a quello che la società ha sui propri servizi, garantito dalla necessaria assenza totale di apporto di capitale privato e una partecipazione totale pubblica, nonchè da una serie di ulteriori limiti tra cui l'impossibilità prevista dallo statuto di alienare quote di capitale a soggetti privati) e la realizzazione della parte più importante delle attività della società con l'Ente pubblico che la controlla. In tali casi la società in house non può essere considerata un soggetto terzo rispetto all'amministrazione affidante.
A livello nazionale, l'art. 35 L. 448/2001 e l'art. 14 d.l. 269/2003 hanno successivamente vietato la gestione formalmente pubblica dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, imponendo, in caso di scelta per la gestione sostanzialmente pubblica, l'impiego delle forme societarie (in house).
L'art. 23 bis d.l. 112/ 08 ha rovesciato gli equilibri abrogando il comma 5 dell'art. 113 del TUEL e ha prescritto che in via ordinaria, la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba essere affidata a imprenditori o società private scelte mediante procedure a evidenza pubblica e privata, a condizione che venisse messa a gara la qualità di socio privato congiuntamente all'attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio, e che al socio venisse attribuita una partecipazione non inferiore al 40%. Si era quindi optato per un modello di gestione dei servizi pubblici locali improntato al ricorso al mercato.L'art. 23 bis è stato oggetto di ricorso alla Corte Costituzionale, la quale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale, affermando la piena compatibilità dell'articolo sia con la normativa comunitaria sia con la normativa nazionale (sentenza n. 325 del 17/11/2010). 
Come noto, l'articolo 23 bis è stato oggetto di consultazione referendaria e di conseguente totale abrogazione. 
Successivamente l'art. 4 del dl 138/2011 modificato dalla legge di conversione 148/2011 e dal d.l. 1/2012, rubricato "adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'unione europea" ha nuovamente regolamentato l'affidamento dei servizi pubblici locali dettando una disciplina che ricalcava l'impostazione dell'art. 23 bis quanto alla ratio liberalizzatrice e pro-concorrenziale, imponendo l'esternalizzazione dei servizi e rendendo ancor più remote le ipotesi eccezionali di affidamento diretto. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la normativa poichè viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare ex art. 75 Cost.
Ad oggi la gestione dei servizi pubblici locali è regolata dai principi comunitari, dall’art. 113 TUEL, dall’art. 3 bis del DL 138/2011, dal nuovo art. 34 commi 13-18 del DL 179/2012 (ancora non convertito) e dalle varie leggi di settore.
Il DL crescita bis in un lungo articolo rubricato “Misure urgenti per le attività produttive, le infrastrutture e i trasporti,i servizi pubblici locali, la valorizzazioni dei beni culturali ed i comuni” torna a disciplinare la materia in oggetto. Il comma 13 dell’art. 34 -per assicurare il rispetto della disciplina europea,  la  parità  tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire  una adeguata informazione alla collettività  di  riferimento- dispone che l’affidamento del servizio sia effettuato sulla base di una apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante che dia conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisca i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste. 
Il comma 16 aggiunge il comma 1 bis all’art. 3-bis del DL 138/2011, disponendo che le procedure per il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica sono effettuate unicamente per ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei (di cui al comma 1).

Per quanto riguarda il periodo transitorio il comma 14 prevede che per gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del decreto, la relazione prevista al comma 13 deve essere pubblicata entro il 31 dicembre 2013. Per gli affidamenti per i quali non è prevista una data di scadenza, gli enti competenti provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto, un termine di scadenza dell’affidamento, pena la cessazione del rapporto medesimo alla data del 31 dicembre 2013. Gli affidamenti diretti nati alla data del 1° ottobre 2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa e a quelle da esse controllate ai sensi dell’art. 2359 c.c., cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto; gli affidamenti che non prevedono una data di scadenza cessano improrogabilmente e senza necessità di un’apposita deliberazione dell’ente, il 31 dicembre 2020 (c. 15).
Tali disposizioni non si applicano al servizio di distribuzione del gas naturale e al servizio di distribuzione di energia elettrica, già disciplinati da leggi di settore.
Maria Giovanna Laurenzana

lunedì 5 novembre 2012

A.U., la Regione non può rimanere in silenzio


articolo tratto da Rinnovabili.it 
Il Consiglio di Stato dichiara illegittimo il comportamento silente tenuto delle amministrazioni sull’istanza di autorizzazione unica per la costruzione di un impianto fotovoltaico
Rispettando i principi comunitari di semplificazione dei procedimenti autorizzativi a favore degli impianti da fonti rinnovabili, con sentenza n. 5413 del 23 ottobre 2012, il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittimo il comportamento silente tenuto dalle Regioni che hanno l’obbligo di condurre il procedimento nel rispetto delle normative di settore, espressione dei principi di economicità e di efficacia dell’azione amministrativa, nonché dei principi dell’ordinamento comunitario, concludendo lo stesso nel termine tassativamente prescritto.

Nella specie, di fronte alla richiesta di autorizzazione unica per la costruzione di un impianto fotovoltaico la Regione (nel caso in esame, la Regione Puglia) deve comunque esprimersi (o in positivo o in negativo), entro un termine ben preciso (180 giorni). Tale termine di conclusione del procedimento è di natura perentoria.
In generale, la legge 241/90 sancisce l’obbligo per l’amministrazione di concludere ogni procedimento con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale (attualmente ridotto da 90 a 30 giorni) o quello indicato da specifiche disposizioni di legge, come la normativa speciale di cui al  Dlgs del 387/2003 (attuativo della Direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica da fonti rinnovabili).

Secondo tale disciplina gli impianti alimentati da fonti rinnovabili sono soggetti a una autorizzazione unica  rilasciata a seguito di un procedimento, anche questo unico, al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate. Il rilascio dell’autorizzazione costituisce titolo a costruire e a mettere in funzione l’impianto (in conformità al progetto approvato).
Il decreto statuisce che il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica si concluda nel termine massimo di 180 giorni dalla presentazione della richiesta. Tale termine, come chiarito dalla Corte Costituzionale, è di natura perentoria, in quanto costituisce principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia e risulta “ispirato alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo” (C. Cost. sent. 282/09).
Pertanto, afferma il Consiglio di Stato, la mancata adozione di un provvedimento espresso sulla richiesta autorizzazione unica è del tutto ingiustificata e configura un sostanziale inadempimento.
Maria Giovanna Laurenzana

giovedì 20 settembre 2012

Il SIN di Taranto: vicenda giudiziaria Ilva, bonifica quartiere Tamburi mai effettuata, AIA Ilva, DL. 129/2012


IL SIN di Taranto: vicenda giudiziaria Ilva, bonifica quartiere Tamburi mai effettuata, AIA Ilva, DL. 129/2012.   

    I siti di interesse nazionale (SIN) sono regolati dall’art. 252 del decreto legislativo 152/2006, si        tratta di una particolare categoria di siti inquinati richiedenti attività di bonifica, ovvero siti che sono portatori di un interesse che travalica l’ambito locale o regionale. C’è un interesse nazionale che giustifica l’intervento dello Stato nella conduzione della procedura, infatti la competenza è attribuita al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. 
La Legge 9/12/1998, n. 426, all'articolo 1, disciplina la realizzazione di interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, anche al fine di consentire il concorso pubblico. Il comma 4 individua, tra i 57 siti di bonifica di interesse nazionale, quello di “Taranto”, atteso l'alto livello di inquinamento dell'area e l'elevata compromissione delle diverse matrici ambientali e conseguente pericolo per la salute della collettività. Il SIN di Taranto è stato poi perimetrato con Decreto del Ministero dell'Ambiente 10/1/2000.

Per quanto riguarda l'area di Taranto, è stato stipulato apposito Accordo di Programma in data 11 aprile 2008 e, successivamente, vi è stato un Protocollo d'Intesa sul SIN di Taranto il 5 novembre 2009.

Taranto dal 1961 “ospita” il più importante polo siderurgico d’Europa: l’Italsider, che dal 1988 muta la denominazione in “Ilva” a causa della messa in liquidazione del gruppo Italsider-Finsider.  Privatizzato nel 1995, oggi di proprietà del gruppo Riva, si estende per 15 milioni di metri quadrati ed occupa quasi 13 mila fra operai, impiegati e dirigenti.

L’Ilva di Taranto è da anni sul banco degli imputati per disastro ambientale e sanitario. Già dagli anni ‘90 con due delibere del Consiglio dei Ministri veniva dichiarato e confermato il territorio della provincia di Taranto quale “area ad elevato rischio ambientale”, e veniva approvato il “Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto”.



La vicenda giudiziaria.

Il 26 luglio 2012 la procura di Taranto emette un provvedimento con cui il GIP Todisco dispone il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico ILVA, ovvero l’area agglomerazione, i parchi minerali, le cokerie, l’area altiforni, le acciaierie e la gestione materiali ferrosi. Alle operazioni dovranno sopraintendere due funzionari dell’Arpa Puglia e uno dei dipartimenti di prevenzione dell’ASL di Bari che dovranno anche garantire il rispetto delle norme di sicurezza. Il GIP dispone gli arresti domiciliari per 8 indagati tra dirigenti ed ex dirigenti. Le accuse sono disastro doloso e colposo, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose, inquinamento atmosferico.

         A gennaio 2012, nell’ambito dell’incidente probatorio, e’stata depositata la maxi   perizia sull’ILVA di circa 500 pagine effettuata dal pool di chimici Sanna, Monteguzzi, Santilli e  Felici dalla quale è emersa la realtà che gli abitanti di Taranto conoscono da anni “dallo stabilimento si diffondono gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri etc) contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto e eventualmente di altri viciniori, con particolare riguardo a Benzo(a)pirene, Ipa di varia natura e composizione nonché diossine, Pcb, polveri di minerali”.

         Sulla questione è stata presentata anche una perizia epidemiologica che così conclude:

l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.

Il 3 agosto arriva un altro provvedimento del GIP, che dispone il risanamento degli impianti sequestrati ma senza prevedere alcuna facoltà d’uso degli stessi ai fini produttivi.

Il GIP revoca l’incarico di custode giudiziario al presidente dell’Ilva Bruno Ferrante per conflitto di interessi.

L’Ilva deposita due appelli ed una richiesta di incidente di esecuzione al Tribunale del Riesame di stabilire se il GIP fosse competente ad emettere le ordinanze impugnate per le quali viene richiesto l’annullamento. Secondo i legali dell’acciaieria, poteva emettere ulteriori provvedimenti solo il Riesame, che aveva confermato il sequestro degli impianti consentendo l’utilizzo “in funzione” della eliminazione delle situazioni di pericolo e dell’avvio di un monitoraggio in continuo.

Il 7 agosto 2012 il collegio del Riesame conferma gli arresti domiciliari per Emilio Riva, per il figlio Nicola e per un ex dirigente. L’attuale presidente viene nominato custode ed amministratore di aree e impianti. Vengono revocati i domiciliari per cinque degli otto dirigenti Ilva. Viene decisa la facoltà d’uso a patto che l’uso sia finalizzato alla bonifica e al risanamento ambientale. I custodi dovranno garantire la sicurezza degli impianti realizzando tutte le misure tecniche necessarie per eliminare situazioni di pericolo.

Nelle ultime ore i custodi giudiziari hanno dato l’ordine di avviare le procedure di spegnimento degli altoforni 1 e 5 e di tutte le batterie delle cokerie (ad esclusione della 7 e della 8) e la chiusura dell’acciaieria 1.

   

Tamburi: il quartiere dove i bambini non possono giocare e la bonifica mai effettuata.

L’area maggiormente esposta al rischio inquinamento è il quartiere periferico “Tamburi”situato a ridosso dell’industria siderurgica.

Nel 2010 al fine di procedere alla bonifica e messa in sicurezza del suddetto quartiere ai sensi dell’art. 242 dlgs. 152/2006, è stata eseguita la caratterizzazione da parte dell’Ing. Tommaso Farenga ed i risultati ottenuti hanno portato a denominare la zona ufficialmente ‘inquinata’. Si è parlato di berillio, presente in un quarto dei campionamenti fatti: un metallo pesante che nel suolo del quartiere supera del 30-40% (a seconda delle zone) il valore minimo preso in esame nell’Analisi di rischio –effettuata fino a 5 metri di profondità su 75 ettari di strade asfaltate e non- e che si è resa necessaria dopo i risultati della caratterizzazione.

I risultati dell’Analisi di rischio nello specifico hanno evidenziato “ un rischio totale per le sostanze cancerogene, scenario bambini, pari ad un valore che risulta essere non accettabile (3.86E-05 mentre 1E-05 è il valore limite D.Lgs.152/06). I rischi per sostanze cancerogene derivanti da ciascun contaminante, per il suolo superficiale è risultato non accettabile per PCB (ingestione di suolo e contatto dermico) e Berillio (ingestione di suolo). Il rischio totale (HI) per le sostanze non cancerogene è pari a 3.12 (1 è il valore limite D.Lgs.152/06) e risulta non accettabile’’. E’ dunque emerso un rischio sanitario per sostanze cancerogene e non cancerogene diversamente distribuite nelle aree analizzate. Il rischio non accettabile per il suolo superficiale riguarda anche i seguenti composti: Benzo(a)pirene, Antimonio, Ferro, Piombo, Manganese. Nel caso di Berillio, Ferro e Manganese si sono verificati superamenti dei limiti consentiti per legge in tutte le aree analizzate.
Ricordiamo, infine, che, sebbene si rendano necessari interventi d’emergenza di bonifica e di messa in sicurezza delle aree contaminate, la presenza costante della fonte inquinante nei pressi del centro abitato, continuerà a rappresentare un rischio per la salute degli abitanti del quartiere Tamburi per il verificarsi di successive nuove deposizioni sui terreni e poiché gli inquinanti vengono assunti anche e soprattutto per inalazione (non solo per contatto)
”.

Ma nonostante i risultati dell’Analisi di rischio, il Rione Tamburi ad oggi non ha ancora subito alcun trattamento di bonifica.



         Autorizzazione integrata ambientale.

         Il D. Lgs. 18/2/2005 n. 59 recepisce integralmente la Direttiva IPPC che prescrive la sottoposizione degli impianti riportati nell'allegato I ad una autorizzazione ambientale unica denominata AIA, sostitutiva di tutte le altre autorizzazioni ambientali eventualmente necessarie in base alle normative di settore. Il riferimento è all'elenco di cui all'allegato II (in cui rientrano Autorizzazione alle emissioni in atmosfera, Autorizzazione allo scarico di cui al D. Lgs. 152/1999, Autorizzazione alla realizzazione e modifica di impianti di smaltimento o recupero dei rifiuti di cui al D. Lgs. 22/1997). Viene anche previsto il coordinamento tra IPPC e sistemi di certificazione ambientale. Da sottolineare che la disciplina in tema di AIA va coordinata con gli articoli 216 e 216 R.D. 27/7/1934 n. 1265 (“Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie”, c. d. TULLSS).
Il D. Lgs. 3/4/2006 n. 152, regola la Valutazione di Impatto Ambientale, la Valutazione Ambientale Strategica, i rifiuti, gli scarichi industriali, la bonifica di siti contaminati, i “Siti di Interesse Nazionale” ai fini della bonifica, l'Autorizzazione Integrata Ambientale. il coordinamento tra VIA e AIA, disponendo (nella versione in vigore il 31/7/2007) una integrazione facoltativa della VIA nell'AIA e successivamente la sostituzione dell’AIA con la VIA.
In particolare, l'art. 29-quater disciplina la procedura per il rilascio dell'AIA. Il comma 15 dispone che “in considerazione del particolare e rilevante impatto ambientale, della complessità e del preminente interesse nazionale dell'impianto”, possono essere conclusi specifici accordi tra le amministrazioni al fine di garantire, “in conformità con gli interessi fondamentali della collettività, l'armonizzazione tra lo sviluppo del sistema produttivo nazionale, le politiche del territorio e le strategie aziendali”. Sono poi previsti accordi di programma (art. 246) con riferimento alla bonifica di siti contaminati, per l'eliminazione delle sorgenti dell'inquinamento e comunque per la riduzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti. Ai sensi dell'art. 252, ai fini della bonifica possono essere individuati siti di interesse nazionale: viene ripresa la legge 426/1998. Inoltre, ai sensi dell'art. 252-bis, sono individuati siti di preminente interesse pubblico per la riconversione industriale e lo sviluppo economico-produttivo, tra cui quelli di cui alla legge 426/1998 ed ulteriori (si veda il D.M. 18 settembre 2001, n. 468).
Il D. Lgs. 13/8/2010 n. 155 ha recepito la Direttiva 2008/50/CE sulla “qualità dell'aria ambiente e per un'aria più pulita in Europa”. La finalità è quella di evitare, prevenire o ridurre effetti nocivi per la salute umana e per l'ambiente nel suo complesso; ottenere informazioni sulla qualità dell'aria ambiente (intesa come l'aria esterna presente nella troposfera, ad esclusione di quella presente nei luoghi di lavoro definiti dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81) come base per individuare le misure da adottare per contrastare l'inquinamento e gli effetti nocivi dell'inquinamento sulla salute umana e sull'ambiente e per monitorare le tendenze a lungo termine, nonché i miglioramenti dovuti alle misure adottate; mantenere la qualità dell'aria ambiente, laddove buona, e migliorarla negli altri casi; garantire al pubblico le informazioni sulla qualità dell'aria ambiente. Il predetto decreto stabilisce, tra l'altro, i valori limite per le concentrazioni nell'aria ambiente di biossido di zolfo, biossido di azoto, benzene, monossido di carbonio.


L’AIA prevede che una fabbrica sia autorizzata se adotta le BAT, ossia le migliori tecnologie disponibili. Il dlgs 59/2005 all’art. 7 definisce così il significato di “disponibili”:le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l’applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente valide
nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte in ambito nazionale, purche’ il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli;

Una tale definizione di “disponibile” porta a subordinare l’efficacia tecnica alle ragioni della “ragionevolezza economica”.

La risposta sta nell’articolo 8 della normativa sull’AIA (dlgs 59/2005) che è stato trasfuso nell’art. 29 septies del Codice dell’Ambiente (dlgs 152/2006).

Art. 8. Migliori tecniche disponibili e norme di qualità ambientale

Se, a seguito di una valutazione dell’autorità competente, che tenga conto di tutte le emissioni coinvolte, risulta necessario applicare ad impianti, localizzati in una determinata area, misure più rigorose di quelle ottenibili con le migliori tecniche disponibili, al fine di
assicurare in tale area il rispetto delle norme di qualità ambientale, l’autorità competente può prescrivere nelle autorizzazioni integrate ambientali misure supplementari particolari più rigorose, fatte salve le altre misure che possono essere adottate per rispettare le norme di qualità ambientale.


Dalla perizia dei chimici risulta infatti che le tecnologie dell’Ilva non rientrano nelle migliori BREF (Bat Reference), ossia nelle migliori
tecnologie in assoluto. In alcuni casi le tecnologie adottate sono fuori dal “range” delle Bref, e questo è gravissimo, perché vuol dire che i vari tecnici della Commissione Aia, compresi quelli degli enti locali, non hanno vigilato, o hanno vigilato al contrario, come sembra emergere dalle intercettazioni, dove compaiono alcuni nomi.

Il 30 settembre è fissato come termine per il rilascio della nuova AIA.

 D.L. 129/2012 Disposizioni urgenti per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio della città di Taranto.


Il decreto legge 129/2012 si compone di tre articoli, è volto – secondo quanto evidenziato nelle premesse e nella relazione illustrativa – a fronteggiare la grave situazione di criticità ambientale e sanitaria nel sito di bonifica di interesse nazionale di Taranto. Un Protocollo d’intesa per interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto è stato stipulato il 26 luglio 2012 tra il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio del e del mare, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero per la coesione territoriale, la regione Puglia, la provincia di Taranto, il Comune di Taranto e il Commissario straordinario del Porto di Taranto. Il quadro complessivo degli interventi  del Protocollo ammonta a 336,7 milioni di euro.

Il provvedimento, che è stato approvato dall'Assemblea nella seduta di martedì 18 settembre, non è stato modificato e passa ora all'esame del Senato.

Passando al contenuto del provvedimento, l’art. 1,comma 1, demanda a un D.P.C.M. la nomina di un Commissario straordinario al fine di assicurare l’attuazione degli interventi previsti dal Protocollo d’intesa del 26 luglio 2012 in cui sono compresi gli interventi che fanno riferimento alle risorse stanziate con le delibere CIPE del 3 agosto 2012 per un importo specificato nella norma pari a euro 110.167.413 a valere sulle risorse della regione Puglia del Fondo per lo sviluppo e la coesione, la cui realizzazione è ritenuta prioritaria.

Il Commissario, la cui nomina non dà diritto ad alcun compenso, resta in carica per la durata di un anno prorogabile con un ulteriore D.P.C.M. e può avvalersi di un soggetto attuatore e degli uffici e delle strutture delle amministrazioni pubbliche, centrali, regionali e locali, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, nonché di organismi partecipati di cui all’art. 4, comma 2, del Protocollo (comma 6). Al Commissario è intestata un’apposita contabilità speciale (comma 4) e il comma 7 dell’art. 1 specifica le disposizioni applicabili in materia di controlli e di rendicontazione.

L’art. 1, comma 2, precisa che restano fermi gli interventi previsti nel Protocollo di intesa con oneri a carico dell’Autorità portuale di Taranto e che, a tal fine, è assicurato il coordinamento fra il Commissario straordinario nominato ai sensi del comma 1 ed il commissario straordinario dell’Autorità portuale di Taranto.

L’art. 1, comma 3, prevede che all’attuazione degli altri interventi previsti nel Protocollo sono altresì finalizzate risorse disponibili nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare per l’esercizio finanziario 2012 , nel limite massimo di 20 milioni di euro.

Sulla base di quanto disposto dall’art. 1, comma 5, il Commissario è individuato quale soggetto attuatore per l’impiego delle risorse, per un importo pari a 30 milioni di euro, del Programma Operativo Nazionale (PON) Ricerca e Competitività, nonché delle risorse già assegnate nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (PON) Reti e Mobilità, per un importo pari ad euro 14 milioni.

Il comma 8 dell’art. 1 prevede, inoltre, che i finanziamenti a tasso agevolato a valere sul cd. Fondo rotativo Kyoto art. 57 D.L. 83/ 2012 fino ad un importo massimo di 70 milioni di euro - possono essere concessi, secondo i criteri e le modalità definiti dal medesimo articolo 57, anche per gli interventi di riqualificazione e di ambientalizzazione compresi nell’area del sito di interesse nazionale di Taranto.

L’art. 2 riconosce, infine, l’area industriale di Taranto area in situazione di crisi industriale complessa ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 27del  decreto–legge 22 giugno 2012, n. 83, che consente di attivare i progetti di riconversione e riqualificazione industriale la cui finalità è quella di agevolare gli investimenti produttivi, anche di carattere innovativo, dei territori interessati. L’art. 3 dispone l’entrata in vigore del provvedimento.

Per quanto riguarda l'attività parlamentare, nella seduta del 14 agosto si sono svolte le comunicazioni del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e  del mare sulla situazione dell’ILVA di Taranto e sulle prospettive di riqualificazione presso le Commissioni riunite VIII e X. Nella seduta dell'Assemblea del  Senato del  5 settembre, infine, si è svolta un'informativa del  Ministro dello sviluppo economico e delle infrastrutture e dei trasporti e del  Ministro dell'ambiente e della tutela del  territorio e del mare sui più recenti sviluppi della vicenda dell'Ilva di Taranto.
Rosanna Carbotti

martedì 18 settembre 2012

Servizi pubblici: dietro il no della Consulta

tratto da Rinnovabili.it 

Diamo un sguardo più da vicino alla sentenza n. 199/2012 della Corte Costituzionale, del 20 luglio scorso, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 del “decreto ferragosto”.


Non ha deluso le aspettative di chi ha creduto e crede nelle motivazioni dei requisiti referendari di giugno 2011, la sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012 che non ha reso vana la numerosa affluenza alle urne per l’abrogazione della normativa in materia di servizi pubblici locali. La Consulta, partendo dal presupposto opportunamente eccepito dalle Regioni ricorrenti, che uno dei quattro quesiti referendari veniva impropriamente circoscritto alla sola questione della privatizzazione del servizio idrico, ha annullato le disposizioni contenute nell’art. 4 del D.L. 138/2011. La disciplina contenuta nell’art. 4 suddetto non solo riproduceva sia nei principi che testualmente, sia talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23 bis del D.L. sia la maggior parte delle disposizioni recate dal regolamento di attuazione. Nonostante l’esclusione dall’ambito di applicazione della  nuova disciplina del servizio idrico integrato “risulta evidente l’analogia, talora la coincidenza, della disciplina contenuta nell’art. 4 rispetto a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’identità della ratio ispiratrice”.  Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuavano,  afferma ancora la Corte Costituzionale, la drastica riduzione delle ipotesi di  affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso  escludere. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum  riguardava “pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica” (sentenza n. 24 del  2011) ai quali era rivolto l’art. 23-bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato  dal novero dei servizi pubblici locali sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma di cui all’art. 4 del D.L. 138/2011 costituiva, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum  del 12 e 13 giugno 2011.  Il Giudice delle leggi ha quindi ritenuto che la norma in esame violasse il divieto di ripristino della normativa abrogata  dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale. Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli  strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.

Ad oggi, dunque, il settore dei servizi pubblici, analogamente a come era avvenuto all’esito del referendum abrogativo del giugno 2011, si trova ad essere regolato esclusivamente dai principi di diritto comunitario, (assolutamente meno restrittivi rispetto alla disciplina abrogata) sulle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.  Tali principi non impongono la privatizzazione dei servizi pubblici locali, fermo restando che ogni ente è libero di scegliere anche questa strada attuando le conseguenti procedure ad evidenza pubblica del caso, ma consente agli Stati membri di mantenere la gestione pubblica e non prevede una soglia minima di partecipazione dei privati nelle società miste.

Allo stato dunque gli affidamenti legittimi a società in house o miste, con socio operativo selezionato mediante gara a c.d. doppio oggetto con almeno il 40% di capitale, possono proseguire fino alla scadenza senza necessità di alcun adempimento da parte dei Comuni. Non sarà quindi necessaria la prevista procedura sull’analisi della gestione concorrenziale (delibera quadro ed eventuale parere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Viene meno anche l’obbligo per i Comuni di ridurre le proprie partecipazioni secondo tempi e modalità prestabilite, per poter portare a scadenza i contratti in essere (scongiurando possibili infiltrazioni da parte di società di derivazione mafiosa).

Restano invece valide ed in vigore le disposizioni  di cui all’articolo 3 bis inerente Ambiti  territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali nonché le norme in materia di vincoli e limiti per le società in house su personale, acquisti di beni e servizi e possibile estensione del Patto di Stabilità, previsti dalle vigenti normative.


giovedì 5 luglio 2012

A un anno dal referendum

tratto da Rinnovabili.it del 19 giugno 2012
 di Maria Giovanna Laurenzana

                                                                                                                                   
Ad un anno dal referendum si torna ad affrontare la questione dei servizi pubblici locali; in effetti il decreto legge n. 138/2011, di adozione di ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria, all’art. 4 ha dettato disposizioni rubricate come “Adeguamento  della  disciplina  dei  servizi   pubblici   locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”. In realtà si tratta di disposizioni che riproducono in larga misura quelle già contenute nell’art. 23-bis del d.l. 112 del 2008 e s.m.i. che sono state oggetto del referendum. L’art. 23-bis  conteneva misure di liberalizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, con esclusione soltanto dei servizi dell’energia elettrica e del gas (la cui disciplina di derivazione comunitaria è comunque improntata a concorrenza). Le misure di liberalizzazione si sostanziavano nella marginalizzazione del modello dell’housing providing e nell’introduzione di vincoli all’utilizzo delle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

L’housing providing era ammesso soltanto “per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”, salvo che per i servizi pubblici locali di valore economico inferiore ai 200.000 euro annui. Per le società miste era invece stabilita al 40% la partecipazione minima al capitale sociale dei privati, scelti comunque mediante gara diretta ad attestarne anche le capacità operative. Sempre nella prospettiva della liberalizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’art. 23-bis disponeva l’incompatibilità tra l’essere beneficiari di affidamenti diretti e la gestione diretta o indiretta di altri servizi o in ambiti territoriali diversi. Con l’art. 4 in oggetto viene reintrodotto l’obbligo degli enti locali di verificare la realizzabilità della gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, evitando dunque l’attribuzione di diritti esclusivi. La gestione del servizio deve essere affidata mediante gara, salvo gli affidamenti diretti alle società in house, ammessi solo se il valore economico del servizio è inferiore a 900.000 euro annui, e gli affidamenti alle società miste il cui socio privato, scelto mediante gara diretta ad attestarne anche le capacità operative, detenga almeno il 40% del capitale sociale.

Sebbene la rubrica dell’art. 4 del d.l. n. 138 espressamente reca “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare” (oltre che “alla normativa dell’Unione europea”) la nuova disciplina relativa alla gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica appare più che altro ripristinatoria della disciplina fatta oggetto di referendum abrogativo. È stata esclusa l’applicabilità della disciplina di liberalizzazione al servizio idrico integrato, a cui si applicano soltanto le disposizioni di cui ai c. 19-27 (sulla distinzione tra compiti regolazione e di gestione). L’esclusione del servizio idrico dalla disciplina di liberalizzazione dei servizi pubblici locali muove dal presupposto che il referendum abrogativo abbia avuto ad oggetto esclusivamente l’obbligatorietà della gestione privata del servizio idrico, anche se dalla sentenza della Corte costituzionale 26 gennaio 2011, n. 24, che ha dichiarato ammissibile il referendum abrogativo avente ad oggetto l’art. 23-bis, risulta pacificamente che il quesito referendario non mirava soltanto all’abrogazione della disciplina di liberalizzazione della gestione del servizio idrico, bensì di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica a cui l’art. 23-bis si riferiva.

Tali disposizioni sono state oggetto di ricorso dinanzi alla Corte Costituzionale da parte della Regione Puglia che lamenta una coartazione costituzionalmente illegittima, del diritto dell’ente territoriale responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i propri beni a favore della propria comunità nonché contrastante con l’esito del referendum. Infatti, l’art. 4 d.l. n. 138/2011, forzando la liberalizzazione delle attività inerenti a servizi pubblici locali di rilevanza economica e marginalizzando le ipotesi di gestione diretta attraverso soggetti di diritto pubblico, detta una normativa del tutto difforme, nello spirito e nei contenuti, dalla volontà popolare espressa a seguito della consultazione referendaria, nonché dagli stessi principi costituzionali e comunitari. Secondo la Regione ricorrente, la disciplina adottata inoltre risulta contrastante anche con le dichiarate esigenze di adeguamento al diritto comunitario, il quale, pur incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo per garantire la pari opportunità di accesso al mercato delle commesse pubbliche per tutti gli operatori europei, ammette pienamente il diritto di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione. E’ invece soltanto nel momento nel quale un’autorità pubblica scelga di esternalizzare il servizio che il procedimento di affidamento deve rispettare i principi di non discriminazione, trasparenza, parità di trattamento, libera circolazione di persone e imprese ed in particolare la disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. Peraltro, all’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis cit. e’ conseguita l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (gestione diretta del servizio di rilevanza economica, attraverso un affidatario che costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla totalmente (art. 106 TFUE); l’affidamento della gestione ad una società mista diretto se il socio privato delle stessa e’ stato scelto mediante gara ad evidenza pubblica; gestione c.d. in house  subordinata al verificarsi di tre condizioni: capitale totalmente pubblico del gestore; possibilità di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte principale dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante), non verificandosi alcun vuoto legislativo, ne’ alcuna reviviscenza di disposizioni precedentemente abrogate dallo stesso art. 23 bis. L’udienza dinanzi alla Consulta si terrà il prossimo martedì 19 giugno.

Emergono inoltre questioni non strettamente giuridiche ma altrettanto rilevanti e preoccupanti legate all’obbligo di partecipazione al capitale sociale da parte di privati e quindi la vendita delle quote di società miste. Infatti in un periodo di crisi economica e finanziaria il rischio è quello che la gestione dei servizi pubblici locali finisca nelle mani di società di derivazione mafiosa che sono le uniche (o tra le poche) in grado di procurarsi liquidità.

Trivellazioni: scappatoia all’italiana

tratto da Rinnovabili.it
di Maria Giovanna Laurenzana  

A confermare il forte interesse dell’attuale governo per le estrazioni di idrocarburi è subentrato l’art. 35 del D.L. 83 del 22 giugno 2012, il c.d. decreto “crescita”. Già nel gennaio scorso, le bozze del  Decreto liberalizzazioni, contenevano un articolo che, andava a modificare una norma fondamentale per la tutela delle aree marine protette e del patrimonio costiero italiano, inserita nel codice dell’ambiente soltanto nel 2010. L’art. 6 c. 17 del d.lgs 152/06 stabilisce che all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi in mare. Lo scopo della norma è la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, anche per le zone di mare poste entro dodici miglia marine dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, oltre che per i soli idrocarburi liquidi nella fascia marina compresa entro cinque miglia dalle linee di base delle acque territoriali lungo l’intero perimetro costiero nazionale. Al di fuori delle medesime aree, le suddette attività sono autorizzate previa sottoposizione a procedura di VIA, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività sopra menzionate. La norma del decreto liberalizzazioni ribadiva il divieto di svolgere attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi all’interno di aree marine protette (da individuare con decreto del Ministero dell’Ambiente); in caso di istituzione di una nuova area marina protetta, le concessioni già rilasciate non avrebbero perso efficacia. Inoltre era previsto che poteva rilasciarsi il titolo abilitativi prima dell’inserimento nell’elenco delle aree sottoposte a divieto. La norma, come noto, fu subito criticata dalle associazioni ambientaliste e da diverse regioni e non fu più inserita nel decreto liberalizzazioni.

L’art 35 del D.L. Crescita torna a modificare l’art. 6 comma 16 del d. lgs 152/06 prevedendo che all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare. Il divieto è inoltre stabilito per le zone di mare poste entro dodici miglia dalla costa lungo l’intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette, fatti salvi i procedimenti concessori in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010 n. 128 ed i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi, nonché l’efficacia dei titoli abilitativi già rilasciati alla medesima data, anche ai fini della esecuzione delle attività di ricerca, sviluppo e coltivazione da autorizzare nell’ambito dei titoli stessi, delle eventuali relative proroghe e dei procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi. Le attività sono sottoposte a procedura di valutazione di impatto ambientale, sentito il parere degli enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle attività.

La norma, impone un unico e più restrittivo limite per le attività (12 miglia marine), ma riconosce espressamente una proroga a concessioni scadute nonché l’autorizzazione di domande che non hanno concluso l’iter. La norma, secondo quanto scritto nella relazione illustrativa, consentirebbe di completare i progetti di sviluppo di giacimenti già scoperti sui quali risultavano già fatti investimenti e di sviluppare i progetti conseguenti a nuovi rinvenimenti su aree già richieste, evitando oneri a carico delle finanze pubbliche conseguenti a richieste di risarcimento da parte delle imprese per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in corso.

Aggravando la portata della norma, la relazione illustrativa precisa che nell’ambito delle licenze già rilasciate, possono essere svolte, oltre alle attività di esercizio, tutte le attività di ricerca, sviluppo e coltivazione di giacimenti già noti o ancora da accertare. Da tale previsione ne potrebbe derivare che chi prima di maggio 2010 possedeva un’autorizzazione per la ricerca o trivellazione, con tale norma potrà non solo riprendere la sua attività ma intraprenderne di nuove inizialmente non previste.

Si permetterà quindi alle compagnie petrolifere, per troppo tempo frenate dalla rigidità apparente della normativa italiana, di svolgere qualsiasi attività in mare pur avendo una sola autorizzazione a discapito della tutela del mare.



domenica 24 giugno 2012

Responsabilità per danno all'ambiente.

L’evoluzione del quadro normativo in materia di responsabilità per danno all’ambiente: la disciplina comunitaria (dir.2004/35/CE) e la parte VI del D.lgs 152/2006.

Alla base della normativa italiana sul danno ambientale troviamo la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. La finalità: introduzione di un regime di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
1° considerando: la direttiva afferma che la prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato.
2° considerando: prevenzione e riparazione “dovrebbero essere attuate applicando il principio chi inquina paga e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile”.

Art. 1: la direttiva istituisce un quadro per l responsabilità ambientale, basato sul principio “chi inquina paga”, per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale.
Principi informatori:
-         principio di prevenzione,
-         no indennizzo ai privati,
-         principio di ragionevolezza.

Principio di prevenzione:
2° considerando “…l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile.
In tal modo si riducono gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale.
Art.5: azione di prevenzione misure prese per reagire a un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente di danno ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale danno. Il relativo onere grava sull’operatore che “nel caso i cui il danno ambientale non si è verificato ma esiste una minaccia imminente che si verifichi” deve, senza indugio, adottare le misure di prevenzione necessarie, è fatta salva, in qualunque momento, la facoltà dell’autorità competente di chiedere informazioni all’operatore su minacce imminenti di danno ambientale o su casi sospetti, chiedere all’operatore di riprendere le misure i prevenzione necessarie, dare all’operatore le istruzioni da seguire riguardo alle misure di prevenzione necessarie da adottare, adottare essas tessa le misure di prevenzione necessarie.
Art.6:azioni di riparazione: qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a fornire un’alternativa equivalente a tali risorse e servizi come previsto nell’allegato II.
La previsione di misure di riparazione intende garantire che l’ambiente danneggiato sia riportato alle condizioni originarie, attraverso la previsione di apposite misure.
E’ previsto un sistema piramidale che gradua il tipo di intervento distinguendo tra:
-         riparazione primaria: diretti a riportare le risorse naturali ed i servizi danneggiati alle condizioni originarie;
-         riparazione complementare: ottenere un livello di risorse naturali e servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se l sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie;
-         riparazione compensativa: nel caso in cui risulti necessario apportare ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in sito alternativo.   
 Altri principi informatori: art. 3 par. 3 la nuova disciplina, ferma restando la pertinente legislazione nazionale, non conferisce ai privati un diritto ad essere indennizzati in seguito ad un danno ambientale o ad una minaccia imminente di tale danno.

Principio generale di ragionevolezza:
-         1° considerando: “prevenzione e riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale”.
-         3° considerando: “riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la società” attraverso un richiamo al principio di proporzionalità.
-         6° considerando: “si dovrebbe tuttavia tenere conto di situazioni specifiche in cui la legislazione comunitaria o quella nazionale equivalente consentano deroghe a livello di protezione stabilito per l’ambiente”.
Art. 3: ambito di applicazione:
-         ipotesi di responsabilità oggettiva: danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell’allegato II e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di dette attività.
-         Richiesto requisito minimo della colpa: danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle attività professionali non elencate nell’allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a seguito di una delle dette attività.
     Art. 17: principio di irretroattività: applicazione della direttiva nel tempo.
             Le disposizioni contenute nella direttiva non si applicano:
-         al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30 aprile 2007 (data di entrata in vigore della direttiva);
-         al danno verificatosi dopo la medesima data, se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di tale data;
-         al danno in relazione al quale siano passati più di 30 anni dall’emissione,evento o incidente che l’ha causato.


Nel d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 le norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente sono contenute nella parte VI:
-         artt. 299-310: disciplina attuativa della direttiva, applicabile ai soli esercenti attività professionali sottoposte a regolamentazione amministrativa in quanto pericolose per la salute (solo all’operatore considerato come qualsiasi persona fisica o giuridica, pubblica o privata che esercita o controlla un’attività professionale avente rilevanza ambientale (art. 302, comma 4).
-         Artt. 311 e ss.: disciplina applicabile a chiunque, volta a rendere più efficiente la previgente disciplina dell’art. 18 legge 349/1986 di portata generale. Possibilità per il Ministero dell’Ambiente di chiedere, in via giudiziale o attraverso un’ingiunzione amministrativa, una somma di denaro a titolo di risarcimento danni all’autore dell’illecito che non ha provveduto al ripristino.

Esclusioni:
-         danno per il quale siano trascorsi più di 30 anni dall’emissione, dall’evento o dall’incidente che l’hanno causato;
-         ipotesi di inquinamento di carattere diffuso se non è possibile accertare in alcun modo un nesso causale tra il danno e l’attività dei singoli operatori;
-         situazioni  inquinamento per le quali siano effettivamente avviate le procedure relative alla bonifica, o sia stata avviata o sia intervenuta bonifica dei siti nel rispetto delle norme vigenti in materia, salvo che, all’esito di tale bonifica non permanga un danno ambientale.

Principio di prevalenza del risarcimento in forma specifica (bonifica) rispetto a quello per equivalente sancito dall’art. 311, esistenza di un ordine progressivo logico- giuridico tra ripristino dello stato dei luoghi e risarcimento in forma pecuniaria per equivalente.
Art. 311 azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale.
È previsto un ordine gerarchico nel risarcimento del danno:
- risarcimento in forma specifica (ripristino);
- misure complementari o compensative di cui alla direttiva 2004/35/CE;
- risarcimento per equivalente.

È necessario adeguare la normativa italiana alla direttiva 2004/35/CE anche a fronte della procedura di infrazione 2007/4679 avviata dalla commissione nei confronti del nostro paese. Con tale procedura di infrazione la Commissione ha rappresentato la violazione, sotto vari profili, da parte della normativa interna dei principi posti dalla direttiva. Tali profili di incompatibilità riguardano:
-mancata previsione di ipotesi di responsabilità oggettiva, obbligo di riparazione per  soli danni causati da comportamenti dolosi o colposi (art. 311 comma 2).
- ammissibilità, tra le forme di riparazione consentite, del risarcimento per equivalente patrimoniale.
Applicazione parziale dei principi di derivazione comunitaria in materia di imputazione, quantificazione e risarcimento del danno ambientale.

L’unico ente legittimato ad essere risarcito e ad acquisire i relativi crediti con vincolo di destinazione ad apposito fondo di rotazione per il finanziamento degli interventi di risanamento delle aree danneggiate è lo Stato in persona del Ministero dell’Ambiente. Esiste però una legislazione passiva per la responsabilità del danno da ritardo nell’adozione delle misure necessarie. Le Regioni, province ed enti locali possono presentare denunce ed osservazioni, e sono legittimati ad agire per l’annullamento degli adottati in violazione delle norme di protezione ambientale e per il risarcimento danni da ritardo nell’attivazione.  

Nella legislazione statunitense: il CERCLA (Comprehensive Environmental Response, Compensation and Liability Act) prevede una responsabilità di tipo oggettivo, solidale e retroattiva nei confronti del potentially responsible parties. Si tratta di una disciplina molto rigorosa per la quale i produttori saranno responsabili oltre che per i costi di clean up, anche per i danni arrecati alle risorse naturali (natural resources damages) e gli unici casi in cui non saranno responsabili sono quelli di forza maggiore, guerra, atto vandalico.
Rosanna Carbotti

martedì 12 giugno 2012

RIFIUTI ABBANDONATI NELLE PIAZZOLE DI SOSTA: IL COMUNE PUO' CHIEDERE ALL'ENTE PROPRIETARIO DEL TRATTO STRADALE DI RIMUOVERLI. Consiglio di Stato n.3256/2012

"Ai sensi dell'art. 14 del Codice della Strada spetta agli enti proprietari (e ai concessionari delle autostrade) provvedere alla loro manutenzione, gestione e pulizia, comprese le loro pertinenze e arredo, nonchè attrezzature, impianti e servizi e quindi, non  limitatamente alo solo manto stradale, ma anche alle piazzole di sosta, onde siano garantite la sicurezza e la fluidità della circolazione". 

Questo è quanto stabilito in una recente sentenza del Consiglio di Stato, il quale, richiamando la precedente giurisprudenza in materia, ha accolto l'appello del Comune di Morcone, che aveva emesso un'ordinanza nei confronti della provincia di Benevento per la rimozione di rifiuti (eternit mischiato a terriccio) abbandonati da ignoti su una piazzola di sosta situata su un tratto stradale provinciale.
Il Tribunale amministrativo della regione Campania, accogliendo il ricorso della Provincia, aveva annullato la predetta ordinanza rilevando che l'ordine di rimozione e lo smaltimento dei rifiuti non rientrerebbero nel generale obbligo di pulizia delle strade per la sicurezza e fluidità della circolazione. Il Tar inoltre specificava che il rapporto di genus a specie intercorrente tra il Codice della Strada e il Codice dell'ambiente, varrebbe solo ai fini della fluidità e sicurezza della circolazioni (che non interesserebbe il caso di specie).
Il Consiglio di Stato, smentendo quanto asserito nella sentenza di primo grato, afferma " è stato puntualmente osservato (Cass. S. U. 25 febbraio 2009 n.4472) che, seppure per un verso non può negarsi che l'art. 14 del D.Lgs 5 febbraio 1997 n. 22, oggi sostituito dall'art. 192 del D. Lgs 3 aprile 2006 n. 152, preveda la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento e al ripristino, solo in quanto la violazione sia imputabile a quei soggetti a titolo di dolo o colpa (in termini C.d.S sez V 26 gennaio 2012 n. 333; 22 marzo 2011 n.46 73; 16 luglio 2010 n.4614)per altro verso “esigenze di tutela ambientale sottese alla predetta norma rendono evidente che il riferimento è a chi è titolare di diritti reali o personali di godimento va inteso in senso lato, essendo destinato a comprendere qualunque soggetto si trovi con l’area interessata in un rapporto, anche di mero fatto, tale da consentirgli - e per ciò stessa imporgli – di esercitare una funzione di protezione e custodia finalizzata ad evitare che l’area medesima possa essere adibita a discarica abusiva di rifiuti nocivi per la salvaguardia dell’ambiente”; è stato poi sottolineato che “…il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell’omissione degli accorgimenti e delle cautele che l’ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un’efficacia custodia e protezione dell’area, così impedendo che possano essere indebitamente depositati rifiuti nocivi”
Per quanto riguarda il tratto stradale in oggetto, il Consiglio di Stato ritiene che, non essendo stato contestata l’appartenenza all’Amministrazione Provinciale di Benevento della strada denominata “Circumlacuale” (che collega la S.P. Morcono – Cuffiano S.P. ex S.S. 625, espressamente classificata quale strada provinciale ai sensi del decreto dirigenziale n. 142 del 21 luglio 2009 della Regione Campania), sulla cui piazzola di sosta il Comune di Morcone ha accertato l’abbandono di materiale, precisamente eternit mischiato a terriccio, non può negarsi che la predetta Amministrazione provinciale avrebbe dovuto adottare tutte le misure e cautele opportune e necessarie quanto meno per eliminare tali rifiuti, di cui peraltro non può neppure negarsi la pericolosità oltre che per l’ambiente, anche per la stessa circolazione stradale, tale obbligo derivando direttamente dall’obbligo di custodia connesso alla proprietà/appartenenza della strada, oltre che dalla previsione dell’art. 14 del D. Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, secondo cui gli enti proprietari delle strade devono provvedere, tra l’altro, alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi.
Mentre con il richiamo all’articolo 14 del Codice della strada è stata indicata la norma violata e dunque il fondamento giuridico della contestazione oggetto dell’ordinanza impugnata, con il richiamo al Codice dell’ambiente è stato invece individuato il fondamento del potere e la legittimazione dell’organo che lo ha esercitato, nonché le procedure da adottare per l’attuazione dell’ordinanza stessa, non sussistendo così tra i due complessi normativi alcuna contraddizione e incompatibilità cui genericamente ha fatto riferimento l’amministrazione appellata; del resto, diversamente opinando non solo la norma dell’art. 14 del Codice della Strada sarebbe di fatto priva di sanzione, non essendo ivi indicata l’autorità preposta all’accertamento della violazione degli obblighi, per quanto nel caso di rifiuti abbandonati sulle aree stradale (e loro pertinenze) non troverebbero tutela alcuna né gli interessi ambientali, né quelli alla sicurezza della circolazione.
per consultare il testo della sentenza cliccare qui

lunedì 28 maggio 2012

INFORMAZIONE AMBIENTALE E DIRITTO DI ACCESSO


Non sono rari i casi di proteste popolari riguardanti decisioni pubbliche in materia ambientale:  decisione di localizzare una discarica o un centro di raccolta in una determinato luogo, oppure decisioni inerenti l'affidamento di un servizio pubblico. Il più delle volte sono decisioni unilaterali dell'Autorità pubblica che non tengono conto del diritto di partecipazione ed informazione dei cittadini. Ancor più segrete vengono tenute le informazioni sullo stato dell'inquinamento del suolo e delle acque. Il tutto in violazione del diritto all'informazione e di accesso agli atti ormai consolidatosi (almeno teoricamente) nel diritto ambientale. 
Si vuole tracciare seppur brevemente la disciplina di tale istituto nell'ottica di una tutela dell'informazione premendo sul fatto che per affrontare in maniera efficace ai problemi ambientali e perseguire uno sviluppo economico e sociale sostenibile, in grado di preservare l’ambiente in cui viviamo e garantirlo alle generazioni future, i governi e le amministrazioni devono informare e coinvolgere la collettività nelle decisioni che investono il territorio e la qualità della vita. 
Tra le esigenze di tutela ambientale e il diritto all’informazione vi è una stretta interdipendenza: per nessun altro bene come per l’ambiente, la diffusione e la circolazione adeguata delle informazioni e delle conoscenze, anche di carattere tecnico, è indispensabile per una corretta definizione degli oggetti e delle modalità di tutela. Ciò dipende dalle peculiari caratteristiche delle questioni ambientali, contraddistinte da interdisciplinarietà, coinvolgimento di una pluralità di attori portatori di interessi diversi, asimmetria distributiva dei costi e dei benefici, distribuzione non uniforme dell’informazione e sviluppo nel tempo delle conoscenze disponibili. In tale contesto, un'adeguata informazione ed una democrazia partecipata rappresentano strumenti essenziale essenziali per la tutela dell'ambiente e della salute umana. Da un lato, infatti, la corretta raccolta, gestione, integrazione delle informazioni relative all’ambiente, costituisce uno strumento indispensabile a supporto delle politiche ambientali, sia nella fase di pianificazione degli interventi sia in quella di verifica della loro efficacia; dall’altro, la pubblicità e la diffusione delle informazioni ambientali consentono di modificare il ruolo che i cittadini svolgono nel perseguimento degli obiettivi di tutela dell’ambiente, trasformandoli in soggetti attivi, in grado di fare scelte consapevoli e di esercitare un controllo sull’operato dei soggetti pubblici.


Il diritto all’informazione ed il diritto di partecipazione ai processi decisionali in materia ambientale, è stato oggetto di molte convenzioni internazionali ambientali. 

Nel rapporto Brundtland, anche denominato “Our common future” (il nostro avvenire per tutti), pubblicato nel 1987, la Commissione Mondiale indipendente per l’Ambiente e lo Sviluppo (CMAS) delle Nazioni Unite dichiarò la necessità di un sistema politico in grado di assicurare l’effettiva partecipazione dei cittadini e delle ONG ai processi ed alle politiche concernenti l’ambiente per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile.
Durante la “Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo”(UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro (luglio 1992) è stato più volte affrontato l’argomento della partecipazione del pubblico al processo legislativo in materia ambientale quale elemento essenziale dello sviluppo sostenibile. 
Ciò che è emerso è un'idea di educazione ambientale, intesa come strumento per la promozione di sistemi di vita e di produzione sostenibili, al fine di garantire un uso delle risorse distribuito equamente tra i popoli e le generazioni presenti e future. L’idea di fondo è che il riconoscimento agli individui di alcuni diritti ambientali “procedurali” o “funzionali”, quali il diritto di ottenere informazioni sullo stato dell’ambiente, di partecipare ai processi decisionali e di avere accesso a idonei mezzi di tutela, consente a ciascuno di collaborare alla creazione di un ambiente migliore, esercitare un controllo sull’attività degli Stati in campo ambientale e tutelare, in ultima analisi, il proprio diritto a vivere in un ambiente sano. In tale prospettiva, un’importanza fondamentale è riconosciuta all’accesso all’informazione ambientale, logica e necessaria premessa per l’esercizio degli altri diritti, e al compito spettante agli Stati di rendere le informazioni ampiamente disponibili al fine di accrescere la consapevolezza e la partecipazione pubblica.  

La Convenzione di Aarhus (Convenzione UN/ECE sull'accesso alle informazioni, la partecipazione pubblica ai processi decisionali e l'accesso alla giustizia in materia ambientale) è la prima convenzione internazionale in materia ambientale che, similmente agli accordi per la tutela dei diritti umani, impone agli Stati degli obblighi nei confronti degli individui. La Convenzione, riconosciuto il fondamentale diritto umano a un ambiente salubre, individua quali mezzi per farlo valere: l’accesso all’informazione, la partecipazione ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia, tre “pilastri” su cui costruire un nuovo modello di democrazia ambientale.
L’informazione ambientale, è definita in maniera estremamente ampia; la nozione comprende non solo le informazioni riguardanti lo stato degli elementi dell’ambiente (aria, acqua, suolo, paesaggio, biodiversità..) ma anche le informazioni attinenti agli elementi che possono influenzare lo stato dell’ambiente, vale a dire, «i fattori», come sostanze, energia, rumore e radiazioni, ma anche «le attività» e «le misure» (provvedimenti amministrativi, politiche, normative, piani e programmi, incluse le analisi economiche utilizzate nei processi decisionali) suscettibili di influire sull’ambiente. La definizione comprende, inoltre, le informazioni riguardanti lo stato di salute e la sicurezza umana e lo stato dei siti culturali nella misura in cui sono influenzati dallo stato dell’ambiente. Legittimato a esercitare il diritto di accesso alle informazioni ambientali in possesso delle autorità pubbliche è il pubblico, definito in maniera estremamente ampia e generica, in modo da evitare qualsiasi discriminazione sulla base della cittadinanza, nazionalità o domicilio. L’accesso, inoltre, deve essere consentito senza necessità di dimostrare un interesse, entro termini prestabiliti, a un costo ragionevole. Infine, sono individuate nel dettaglio le cause che possono legittimare un rifiuto da parte dell’autorità pubblica, al fine di ridurre i margini di discrezionalità degli Stati nell’individuazione delle informazioni accessibili. Le autorità pubbliche devono possedere e aggiornare l'informazione ambientale utile per l'esercizio delle proprie funzioni; istituire meccanismi obbligatori che garantiscano un adeguato flusso di informazioni su attività suscettibili di produrre un significativo impatto sull'ambiente; in caso di minaccia imminente alla salute o all'ambiente, diffondere immediatamente tutta l'informazione utile a prevenire o mitigare i danni. Tra le informazioni che le autorità pubbliche sono tenute a diffondere rientrano le normative, i piani, le politiche in materia ambientale (inclusi i rapporti sulla loro implementazione e i fatti e le analisi rilevanti per la loro elaborazione) e le informazioni sul modo in cui l’amministrazione, a tutti i livelli, esercita le funzioni pubbliche o fornisce i servizi pubblici relativi all’ambiente.
Nell'ordinamento nazionale la disciplina sull'informazione ambientale si rinviene già a partire dalla legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (L.349/1986) che pone in apertura, come compito generale e programmatico del Ministero, quello dell'Informazione. L'art. 14 c.3 della L. 349/1986 è la prima disposizione nazionale a stabilire che: "qualsiasi cittadino ha diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell'ambiente disponibili...presso gli uffici della PA". La norma come è evidente si riferisce a tutti i cittadini indipendentemente dall'interesse sotteso alla richiesta. Questa norma ha assunto una valenza maggiore quando è stata affiancata dalla disciplina che regola il diritto di accesso ai documenti amministrativi contenuta nella L. 241/90 e s.m.i. L'art. 22 della legge sul procedimento amministrativo definisce il diritto di accesso come il diritto di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi (vale adire ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie, contenente atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale). La disciplina speciale in materia si è arricchita dapprima con il D. lgs 39/97 di recepimento della Direttiva 90/313/CEE e successivamente con il D.Lgs 19 agosto 1995 n. 195 che ha abrogato il precedente provvedimento. Tale ultimo decreto, attuativo della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, ha inteso garantire il diritto di accesso stabilendone i termini, le condizioni e le modalità di esercizio, assicurando altresì, al fine della più ampia trasparenza, che l'informazione stessa, che deve essere aggiornata, precisa e confrontabile, sia messa a disposizione del pubblico e diffusa anche attraverso l'uso di canali tecnologici. Lo scopo del decreto è quello di assicurare la libertà di accesso alle informazioni in possesso della PA, in forma scritta, visiva o sonora riguardanto lo stato delle acque, del suolo, della fauna del territorio ecc.
L'art. 3 non presuppone un interesse alla richiesta di accesso poichè prevede che l'autorità pubblica è tenuta a rendere disponibile l'informazione detenuta a chiunque ne faccia richiesta senza che questi dichiari il proprio interesse.
Il decreto elenca dettagliatamente le ipotesi in cui l'accesso può essere negato (art. 5).
Allo scopo di fornire al pubblico tutte le notizie utili al reperimento dell'informazione ambientale, la PA istituisce e aggiorna almeno annualmente appositi cataloghi pubblici dell'informazione ambientale (art. 4).
Il tema dell'accesso e della diffusione dell'informazione ambientale è contemplato anche nel D.lgs 152/06 che nella prima parte contempla il diritto di accesso alle informazioni ambientali tra i principi generali in tema di tutela dell'ambiente (art. 3 sexies: "Chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale").
L'attività conoscitiva è richiamata inoltre dalle singole parti del decreto che disciplinano i diversi settori. 
Vi è inoltre l'art. 55 rubricato attività conoscitiva, che stabilisce che l'ANCI contribuisce allo svolgimento di tale attività in particolare per realizzare le finalità di risanamento del suolo e del sottosuolo, di risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto e la messa in sicureza di situazioni di rischio, nonchè ai fini della diffusione dell'informazione ambientale di cui agli artt. 8 e 9 del D.lgs 195/2005 e altresì con riguardo all'inquinamento dell'aria, delle acque, acustico, elettromagnetico e luminoso, alle fonti energetiche rinnovabili, allo sviluppo sostenibile, ai partchi e alle aree protette ecc. 

Il diritto di accesso, oltre che alle persone fisiche, spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell'associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all'oggetto dell'istanza. Pertanto, sussiste il diritto di accesso del Codacons agli atti del comune concernenti l'approvazione del progetto esecutivo e la realizzazione di un impianto di smaltimento dei rifiuti atteso che, riguardo a tali atti, l'istanza del Codacons risulta pertinente ai fini statutari dell'associazione in quanto rivolta alla tutela dell'interesse degli utenti del relativo servizio. Peraltro il concetto di legittimazione riguardo all'accesso all'informazione ambientale assume, per espressa previsione normativa e per costante applicazione giurisprudenziale, una valenza decisamente più lata rispetto alla legittimazione prevista per il diritto di accesso tout court. (T.a.r. Lazio, Roma, Sezione 2 ter, sentenza 14 marzo 2011, n. 2260) 

Si sottolinea però che le norme sopra citate fanno riferimento all'accesso agli atti della pubblica amministrazione; capita però che alcune attività di gestione ambientale siano svolte da privati in tal caso non può chiedersi l'eccesso. Lo ha affermato recentemente il Tribunale Amministrativo del Lazio - con sentenza 30 gennaio 2012, n. 966 - che dichiara "l'inammissibilità del ricorso ad exhibendum (art. 116 c.p.a.)" contro il silenzio del gestore di una discarica non qualificabile né come ente pubblico, né come concessionario di pubblico servizio.
Maria Giovanna Laurenzana





lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”.