martedì 23 settembre 2014

Fiscalità ambientale: davvero “chi inquina paga”?

tratto da Rinnovabili.it
di Maria Giovanna Laurenzana

Entro un anno, secondo quanto disposto dall’art. 15 della legge 23/2014, la cd delega fiscale, il governo dovrà superare l’inadeguatezza degli attuali sistemi giuridici e adottare, con opportuni decreti legislativi,  nuove  forme  di  fiscalità cd ambientali e a rivedere la disciplina delle accise  sui prodotti  energetici  e sull’energia elettrica, anche in funzione del contenuto di carbonio e delle emissioni di ossido di azoto e di zolfo.
In vista della riforma ECBA project ha confrontato i costi esterni ambientali delle attività economiche con il gettito derivante da fiscalità ambientale, corrisposto dagli stessi settori.
Dall’indagine di ECBA Project sui costi esterni associati alle emissioni in atmosfera dei settori dell’economia italiana emerge che la stima totale dei costi esterni associati alle emissioni in atmosfera di tutti i settori di attività, famiglie incluse, ammonta a 48,3 miliardi nel 2012, pari al 3,1% del PIL. Dato che in base all’ultima indagine dell’Istat il gettito dell’attuale regime di imposte ambientali, includendo le imposte sull’energia, è stato di 45,5 miliardi di euro nel 2012, il grado di copertura delle esternalità ambientali da parte del fisco è apparentemente molto elevato, ovvero pari al 94%. In realtà, l’analisi di dettaglio evidenzia forti iniquità fra settori.
Ne parliamo con Donatello Aspromonte e Andrea Molocchi, autori dell’indagine di ECBA Project.

Dal vostro studio emerge una applicazione distorta del principio “chi inquina paga”. In sostanza ci sono settori economici che pagano maggiori imposte rispetto alle esternalità ambientali generate. Come superare quest’iniquità?

Dal nostro studio emerge che le famiglie pagano molto più di quanto inquinano (così anche il macro-comparto dei Servizi con 14,5 miliardi di imposte contro i 9,3 miliardi di costi esterni generati), mentre molti settori industriali pagano meno rispetto al loro impatto ambientale. Il comparto dell’Industria ad esempio paga imposte ambientali che corrispondono ad appena il 41% dei rispettivi costi esterni (5,2 miliardi di gettito nel 2012 contro i 12,8 miliardi di costi esterni generati).

L’approccio di valutazione dei costi esterni, adottato dal nostro studio, permette di evidenziare le incoerenze e la scarsità di relazioni fra l’attuale regime di fiscalità ambientale e i costi esterni derivanti dai consumi energetici e dalle altre attività inquinanti dei settori economici. In molti casi di imposte ambientali, come ad esempio per l’accisa sull’elettricità, il fisco non adotta il principio “chi inquina paga” bensì quello dell’”utente paga”. In realtà non è l’utente a decidere sulle modalità più idonee per produrre l’energia elettrica, non ha alcun senso far pagare un’imposta ambientale ad un soggetto che, pur usufruendo di un servizio, non ha la titolarità decisionale per ridurre gli effetti ambientali della produzione di quel servizio. Va a finire che l’utente paga l’imposta anche per la quota di rinnovabili che concorre alla produzione di elettricità.

C’è stata secondo voi fino ad oggi una informazione adeguata sui costi ambientali? In caso di risposta negativa in quale settore c’è stata maggiore disinformazione e quali sono i soggetti che hanno avuto maggiori responsabilità?

Nel dare una risposta a questa domanda, occorre considerare che i costi ambientali sono sostenuti innanzitutto da noi stessi, cittadini esposti all’inquinamento nella vita di ogni giorno, oltre che nello stesso tempo contribuenti e imprenditori o lavoratori. E’ inutile quindi nascondere i costi ambientali dietro interessi economici prevalenti, perché ormai c’è una consapevolezza diffusa della popolazione a cui le imprese e lo Stato devono dare delle risposte. Finché il primo inadempiente sarà lo Stato non si potrà mai diffondere la cultura tecnica della valutazione dei costi esterni ambientali e le altre professionalità riguardanti la misurazione del benessere collettivo. Ci riferiamo in particolare all’importante riforma per l’efficientamento della spesa pubblica in conto capitale delle amministrazioni centrali, realizzata dal Dlgs 228/2011 e dal DPCM 3 agosto 2012, che hanno introdotto precisi obblighi valutativi nella programmazione degli investimenti pubblici, e il ricorso sistematico all’analisi costi benefici nella valutazione di fattibilità dei progetti e nella prioritarizzazione delle opere. Siccome analizzare i costi e i benefici in un’ottica di utilità collettiva significa tener conto anche dei costi esterni e dei benefici ambientali delle opere pubbliche, la mancata attuazione di questa riforma si traduce in costi per la collettività che potrebbero essere evitati. Ad es. come trovare le risorse necessarie per gli investimenti per la riduzione del rischio idro-geologico se non si valutano i benefici ambientali attesi degli investimenti programmati?

Un segnale di attivazione dello Stato in questo campo è essenziale non solo per la pubblica amministrazione, ma anche per gli investimenti dei privati, che potrebbero finalmente disporre di parametri precisi di benessere collettivo per lo sviluppo progettuale delle iniziative, favorendo la riduzione del contenzioso sulle opere e migliorando la redditività attesa dei progetti.

Quali sono gli aspetti che il governo dovrà considerare  nell’introduzione di fiscalità cd ambientali e quali nella revisione della disciplina delle accise  sui  prodotti energetici e sull’energia elettrica? Quanto sarà importante una valutazione dei danni prodotti e quali sono gli strumenti di valutazione?

E’ necessario un ripensamento dei criteri di imposizione fiscale in campo ambientale, ma per poter fare questo lo Stato si deve dotare di un meccanismo di monitoraggio dei costi esterni ambientali che attualmente non esiste. Lo Stato, infatti, sa quanto guadagniamo – e sulla base di questa informazione modula i livelli di imposizione fiscale ordinaria – ma non sa quanto inquiniamo. Quest’ultima informazione è essenziale per un sistema equo di fiscalità ambientale, che colpisca le attività e l’utilizzo delle risorse in relazione ai costi esterni ambientali generati. In linea generale, non potrà esserci equità fiscale senza una specifica conoscenza degli impatti ambientali associati alle diverse imprese e senza un’assoluta trasparenza nelle modalità di determinazione delle basi imponibili sulle quali calcolare le imposte ambientali. E’ indispensabile che si sviluppi sempre di più, anche nel nostro Paese, un filone di studi sulla valutazione delle esternalità ambientali, così come accade nei Paesi europei più avanzati da oltre due decenni.

La tassazione ambientale modificherà l’assetto del mercato?

Potrebbe modificarlo in maniera positiva, dando finalmente applicazione al principio del chi inquina paga, attualmente disatteso. Basti considerare che, sulla base dei dati della nostra indagine, il gap di copertura dei costi esterni da parte del gettito della fiscalità ambientale nel complesso dell’industria manifatturiera, pari a circa 4,1 miliardi di euro, è dovuto principalmente ad un insieme di quattro settori, che complessivamente contribuiscono al valore aggiunto della manifattura per il 13,7% e ai redditi da lavoro dipendente per il 14,5%. In altri termini, tali settori presentano un valore del gettito ambientale largamente inferiore alle esternalità ambientali dagli stessi generati, a scapito di gruppo maggioritario composto da dieci settori manifatturieri (che complessivamente contribuisce al 65,9% del valore aggiunto nazionale e al 68% dei redditi da occupazione), sottoposto ad un carico del fisco ambientale notevolmente superiore ai costi esterni direttamente generati.

Con riferimento a questa situazione, fortemente iniqua, la riforma della fiscalità ambientale può operare in maniera efficace a sostegno della riduzione della fiscalità generale e di rilancio di una crescita più sostenibile: innanzitutto la rimodulazione delle basi di imposizione in maniera più mirata avrebbe un effetto diretto di disincentivo delle attività inquinanti delle imprese e di consapevolezza su dove migliorare; in secondo luogo il maggior gettito ambientale proveniente dai settori più inquinanti potrebbe essere utilizzato per la tanto invocata riduzione delle imposte sul lavoro, fattore produttivo essenziale per tutti settori economici; infine, una parte del gettito potrebbe essere utilizzata per finanziare gli interventi di miglioramento ambientale delle stesse imprese, rilanciando in questo modo gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabile, di efficienza energetica e nelle infrastrutture per i carburanti alternativi per i trasporti riconosciuti dall’Unione Europea, ovvero gli assi della politica europea al 2050. Insomma, la riforma della fiscalità ambientale può far prendere “tre piccioni con una fava”. Non male, vero?

Quali settori avranno maggiori vantaggi e quali invece dovranno sopportare costi maggiori?

Il quadro degli effetti complessivi della riforma sui settori economici dovrà essere valutato dal Governo con attenzione. La nostra modellistica può essere di supporto a questo processo. Per il momento abbiamo analizzato il potenziale gettito di imposte ambientali gravanti su specifici inquinanti, quali ad esempio la carbon tax e la tassa sulle emissioni di SO2 e NOx, entrambe incluse nella delega di riforma della fiscalità ambientale. In base alle nostre stime, il gettito complessivo di una tassa sulla CO2 – includendo anche, in termini equivalenti, il metano e il protossido di azoto – potrebbe raggiungere in Italia i 13 miliardi di euro, di cui 10,1 a carico delle imprese. L’estensione della tassa sulle emissioni di SO2 e NOx a tutti i settori che sono causa di queste emissioni, potrebbe portare ad un incremento del gettito dagli attuali 14 milioni di euro, corrisposti per il momento dalle sole centrali elettriche, a ben 10,1 miliardi di euro, con un incremento di gettito di 700 volte. In quest’ipotesi, il gettito per il settore dell’energia elettrica e gas dovrebbe aumentare dagli attuali 14 a 645 milioni di euro. Il resto dovrebbe andare a carico degli altri settori, prevalentemente interni al comparto manifatturiero e a quello dei trasporti e logistica. Inoltre, una tassa ambientale sulle polveri sottili (PM2,5), potrebbe ambire ad un gettito complessivo da tutti i settori di ben 17 miliardi di costi esterni. Il Governo dovrà confrontarsi con la questione delle imposte ambientali già gravanti su imprese e famiglie, costituite da imposte sull’energia, sui veicoli e altre imposte sull’inquinamento. Come detto, in base ai nostri dati, molti settori dell’economia italiana presentano esternalità associate alle emissioni inferiori al gettito complessivo dell’attuale fiscalità ambientale.

Quanto e in che modo cambierà l’approccio alla tutela ambientale?

Riteniamo che una riforma fiscale in chiave ambientale presenti tutti i presupposti per indurre un cambio di paradigma sostanziale: attraverso l’adozione di un sistema fiscale ambientale che consideri come base impositiva le esternalità ambientali generate dalle specifiche attività produttive, le imprese inizierebbero autonomamente a valutare le proprie prestazioni ambientali in chiave integrata con i dati di bilancio. Inoltre la destinazione di almeno parte del gettito per il finanziamento degli investimenti di miglioramento ambientale potrebbe innescare un’importante spinta al miglioramento delle competitività delle imprese stesse, ricorrendo in maniera sostenibile alle fonti rinnovabili offerte dal territorio e investendo su una maggior efficienza nell’uso delle risorse più impattanti. Siamo ad un punto di svolta epocale e le opportunità offerte dalla delega fiscale sono tante. Speriamo che non vengano sprecate.
lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali”.