di Maria Giovanna Laurenzana
Ad un anno dal referendum si torna ad affrontare la questione dei servizi pubblici locali; in effetti il decreto legge n. 138/2011, di adozione di ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria, all’art. 4 ha dettato disposizioni rubricate come “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”. In realtà si tratta di disposizioni che riproducono in larga misura quelle già contenute nell’art. 23-bis del d.l. 112 del 2008 e s.m.i. che sono state oggetto del referendum. L’art. 23-bis conteneva misure di liberalizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, con esclusione soltanto dei servizi dell’energia elettrica e del gas (la cui disciplina di derivazione comunitaria è comunque improntata a concorrenza). Le misure di liberalizzazione si sostanziavano nella marginalizzazione del modello dell’housing providing e nell’introduzione di vincoli all’utilizzo delle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
L’housing providing era ammesso soltanto “per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”, salvo che per i servizi pubblici locali di valore economico inferiore ai 200.000 euro annui. Per le società miste era invece stabilita al 40% la partecipazione minima al capitale sociale dei privati, scelti comunque mediante gara diretta ad attestarne anche le capacità operative. Sempre nella prospettiva della liberalizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’art. 23-bis disponeva l’incompatibilità tra l’essere beneficiari di affidamenti diretti e la gestione diretta o indiretta di altri servizi o in ambiti territoriali diversi. Con l’art. 4 in oggetto viene reintrodotto l’obbligo degli enti locali di verificare la realizzabilità della gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, evitando dunque l’attribuzione di diritti esclusivi. La gestione del servizio deve essere affidata mediante gara, salvo gli affidamenti diretti alle società in house, ammessi solo se il valore economico del servizio è inferiore a 900.000 euro annui, e gli affidamenti alle società miste il cui socio privato, scelto mediante gara diretta ad attestarne anche le capacità operative, detenga almeno il 40% del capitale sociale.
Sebbene la rubrica dell’art. 4 del d.l. n. 138 espressamente reca “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare” (oltre che “alla normativa dell’Unione europea”) la nuova disciplina relativa alla gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica appare più che altro ripristinatoria della disciplina fatta oggetto di referendum abrogativo. È stata esclusa l’applicabilità della disciplina di liberalizzazione al servizio idrico integrato, a cui si applicano soltanto le disposizioni di cui ai c. 19-27 (sulla distinzione tra compiti regolazione e di gestione). L’esclusione del servizio idrico dalla disciplina di liberalizzazione dei servizi pubblici locali muove dal presupposto che il referendum abrogativo abbia avuto ad oggetto esclusivamente l’obbligatorietà della gestione privata del servizio idrico, anche se dalla sentenza della Corte costituzionale 26 gennaio 2011, n. 24, che ha dichiarato ammissibile il referendum abrogativo avente ad oggetto l’art. 23-bis, risulta pacificamente che il quesito referendario non mirava soltanto all’abrogazione della disciplina di liberalizzazione della gestione del servizio idrico, bensì di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica a cui l’art. 23-bis si riferiva.
Tali disposizioni sono state oggetto di ricorso dinanzi alla Corte Costituzionale da parte della Regione Puglia che lamenta una coartazione costituzionalmente illegittima, del diritto dell’ente territoriale responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i propri beni a favore della propria comunità nonché contrastante con l’esito del referendum. Infatti, l’art. 4 d.l. n. 138/2011, forzando la liberalizzazione delle attività inerenti a servizi pubblici locali di rilevanza economica e marginalizzando le ipotesi di gestione diretta attraverso soggetti di diritto pubblico, detta una normativa del tutto difforme, nello spirito e nei contenuti, dalla volontà popolare espressa a seguito della consultazione referendaria, nonché dagli stessi principi costituzionali e comunitari. Secondo la Regione ricorrente, la disciplina adottata inoltre risulta contrastante anche con le dichiarate esigenze di adeguamento al diritto comunitario, il quale, pur incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo per garantire la pari opportunità di accesso al mercato delle commesse pubbliche per tutti gli operatori europei, ammette pienamente il diritto di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione. E’ invece soltanto nel momento nel quale un’autorità pubblica scelga di esternalizzare il servizio che il procedimento di affidamento deve rispettare i principi di non discriminazione, trasparenza, parità di trattamento, libera circolazione di persone e imprese ed in particolare la disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. Peraltro, all’abrogazione referendaria dell’art. 23 bis cit. e’ conseguita l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (gestione diretta del servizio di rilevanza economica, attraverso un affidatario che costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla totalmente (art. 106 TFUE); l’affidamento della gestione ad una società mista diretto se il socio privato delle stessa e’ stato scelto mediante gara ad evidenza pubblica; gestione c.d. in house subordinata al verificarsi di tre condizioni: capitale totalmente pubblico del gestore; possibilità di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte principale dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante), non verificandosi alcun vuoto legislativo, ne’ alcuna reviviscenza di disposizioni precedentemente abrogate dallo stesso art. 23 bis. L’udienza dinanzi alla Consulta si terrà il prossimo martedì 19 giugno.
Emergono inoltre questioni non strettamente giuridiche ma altrettanto rilevanti e preoccupanti legate all’obbligo di partecipazione al capitale sociale da parte di privati e quindi la vendita delle quote di società miste. Infatti in un periodo di crisi economica e finanziaria il rischio è quello che la gestione dei servizi pubblici locali finisca nelle mani di società di derivazione mafiosa che sono le uniche (o tra le poche) in grado di procurarsi liquidità.